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Le regole dello sport applicate al business: suggerimenti semiseri per una carriera duratura e brillante

PBRisultati immagini per finale di wimbledon 1980

  • Si corre più veloci se si ha un avversario: inutile nasconderlo, avere qualcuno da battere ci fa andare più forte, ci fa essere più intelligenti e creativi.

 

Anche se sono sola nel mio ufficio penso sempre a chi voglio battere e su quale terreno. Voglio fare un prodotto migliore di quello di un competitor, un concept store più evocativo, una festa più glamour.

Il mio Business Plan nasconde un campo di Risiko scritto con l’inchiostro simpatico.

Quando intraprendete un’azione, inventatevi un avversario da battere (anche se lui non lo sa) e iniziate a gareggiare. Vi costringerà a misurarvi e a misurarlo. Vi darà energia per fare meglio, vi darà il gusto di piccole vittorie, anche se il vostro avversario non ha mai saputo di essere sceso in campo contro di voi.

Scovate il vostro benchmark e cercare di fare meglio di lui. Sarà più divertente oltre che più efficace.

  • Vincere è bello ma stravincere è cafone e pure sbagliato

Vi capiterà qualche volta di avere ragione, di essere nella manica del capo, di prendere il premio come migliore previsionista d’Europa, di avere avuto un discreto successo.

Bene, godetevela con discrezione.

Non con stucchevole falsa modestia, ma un minimo di understatement è di dovere.

Aggirarsi per l’ufficio tronfi della propria performance, rovesciare il cestino in testa al capufficio come nei sogni di Giandomenico Fracchia, gioire in modo sguaiato, non solo è fuori luogo ma non favorisce la carriera.

Quelli che oggi sono i vostri avversari, probabilmente domani saranno i vostri colleghi o alleati, o avversari ancora, ma vittoriosi in una nuova competizione.

Vi capiterà, se fate una buona carriera, di perdere qualche battaglia. Avrete in quel caso lo stesso rispetto che siete riusciti a elargire agli avversari nei momenti di successo.

  • Lasciare sempre all’avversario una via di uscita onorevole

Dato che il business è molto simile a un gioco, il fair play è necessario.

Nel tennis si stringe la mano all’avversario anche se si perde, e lo stesso si fa con il giudice di sedia anche se ha visto fuori una palla che per noi era dentro e vorremmo urlare “arbitro cornuto”.

Quando l’avversario è all’angolo, lasciare una via di uscita onorevole minimizzerà i danni che sono gli effetti collaterali di un confronto: chi non ha niente da perdere, anche sconfitto, può fare molti danni. Non solo è inutile infierire, ma è dannoso.

Salvare la faccia dell’avversario, lasciargli una via di uscita onorevole è spesso il modo migliore per godersi un successo senza strascichi penosi.

  • Se siete sicuri di perdere, non giocate

O meglio: cambiate gioco.

Io contro Federer non giocherei a tennis, ma magari lo sfiderei a chi mangia più anguria. Eviterò di perdere miseramente (a tennis) e potrò dire di avere vinto contro il divino Roger (a chi mangia più anguria, vabbè dettagli che trascurerò di sottolineare quando mi vanterò al bar, o durante una presentazione alla rete vendita…)

  • Se l’avversario è troppo pericoloso, fatevelo amico

Una volta la mia amica Carlotta attraversava da sola di sera Central Park (NY) e ha visto da lontano un gruppo di brutti ceffi. E’ andata loro incontro, chiedendo se la accompagnavano all’uscita del parco perché temeva che ci fossero in giro brutti ceffi. SIC.(Oggi Carlotta è viva).

Fate che il più bravo sia il vostro mentore, il vostro allenatore, non il vostro avversario

  • Il gioco è più divertente se ammirate il vostro avversario

McEnroe combatteva strenuamente, ma ammirava e stimava Borg. Hanno fatto insieme alcune sfide memorabili (ogni riferimento alla finale di Wimbledon 1980 è puramente casuale, 4 ore e 5 set che hanno fatto la storia del tennis).

Ho sentito una celebre coppia di stilisti, dietro le quinte, dire di volere essere imprenditori come Armani e eterni come Chanel, pur puntando a fare collezioni e vendite e sfilate di maggiore successo rispetto a Armani o Chanel.

Che noia è giocare con chi è troppo inferiore a noi! Che bello misurarsi con uno più bravo e darsi a mille per vincerlo!

Les jeux sont faits rien ne va plus

 

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Come fare carriera sulle ali della propria reputazione

PB Nel lavoro il modo di lasciarsi è spesso la premessa di come riprendersi.

Date per assodate le capacità tecniche (non c’è bisogno di leggere un blog di cucina per capire che, se si ha l’ambizione di fare lo chef, bisogna imparare a cucinare) il nostro comportamento durante i momenti salienti del lavoro in azienda (la prima settimana, le riunioni di lancio, le presentazioni e – sì, proprio così – gli ultimi giorni prima di cambiare lavoro) sono davvero indelebili nella memoria di chi poi, per tutta la vita, girerà mondo e aziende con una certa opinione di noi. E quella opinione divulgherà in modo più o meno consapevole, contribuendo alla nostra “reputazione”.

Ecco qualche esempio (vero) di buoni – relativamente alla reputazione professionale – e cattivi comportamenti.

1)      darsi malati. C’è una categoria di persone che per evitare una situazione di difficoltà (come i ragazzi che bigiano l’interrogazione) o per sottolineare la propria insoddisfazione (come quelli che non si presentano a una festa perché non condividono la lista degli invitati), quando c’è  un momento importante (riunione, presentazione, inaugurazione, cena di Natale, corso di formazione, viaggio all’estero…) si danno malati. Lasciando dietro di sé il triplice amaro sapore della menzogna (normalmente tutti sanno che la malattia è una scusa), della permalosità (non è venuta perché aveva il posto standing in sfilata anziché la poltrona in prima fila), della inaffidabilità (non ci si può contare, all’ultimo può dare forfait).

Un mio ex collega è stato a casa tre mesi in malattia per contrasti con l’azienda. L’azienda normalmente non si accorge di niente (è una entità astratta priva di sentimenti) , ma i colleghi lo hanno stramaledetto ogniqualvolta hanno dovuto fare il suo lavoro o si sono trovati nei pasticci perché nessuno aveva fatto, appunto, il suo lavoro. La sua reputazione è per me di totale inaffidabilità, indipendentemente dal fatto che le sue rivendicazioni fossero giuste.

Si sta a casa malati solo se si è veramente malati. E il giorno in cui si conta su di voi, ci si trascina anche sui gomiti.

Ricordo di una mia tragica presentazione: nuova collezione e nuova campagna pubblicitaria.  Forza vendite da tutto il mondo. E abominevole dissenteria. Ricordo di avere ingurgitato una scatola di Dissenten, di avere coperto il tragitto in automobile da casa all’ufficio con una salvietta da mare appoggiata sul sedile (ad evitare drammatiche complicazioni sull’auto aziendale), di avere mappato tutti i bar con bagno da via Lorenteggio a via  Borgonuovo. Chiaro che finito il mio speach mi sono precipitata a letto, con boule dell’acqua calda e piumotto. Al rinfresco nessuno ha notato la mia assenza, ma la presentazione è andata e io ho guadagnato gratitudine eterna dal mio capo.

2)      parlare la prima settimana . La prima settimana si parla solo se espressamente interrogati e si evitano soprattutto considerazioni sui massimi sistemi. La tentazione di dire qualcosa di memorabile è forte. Ma la probabilità di dire grandi sciocchezze dovrebbe frenare a nostra verve affabulatoria.

Recentemente una collega, appena arrivata per gestire il prodotto su un mercato estero, ha contestato una combinazione di colori, accampando una inidoneità culturale sul suo mercato. Peccato che quella non fosse “una” combinazione, ma “la” combinazione. Insomma come dire alla Ferrari di togliere il rosso dalla cartella colore.

La nuova arrivata ora non parte dal pian terreno, ma dalla cantina. Il Penthouse pare lontano.

3)      Tacere l’ultima settimana. Bisogna comportarsi come quando si chiude casa al mare: come se dovessimo ritornare la prossima estate.

Tutto, per quanto possibile, deve essere in ordine, chiuso e il passaggio di consegne deve essere generoso.

Alla fine di un rapporto di lavoro siamo i più esperti della nostra materia. Una parola in più, una certa generosità nel passaggio delle informazioni, sarà molto apprezzata da chi ci sostituirà e da chi è stato il nostro capo fino ad ieri.

Io sto per essere “lasciata” da un collaboratore che stimo molto. Detto collaboratore sta gestendo le sue ultime settimane cercando di fare il meglio perché il team non sia in difficoltà per la sua dipartita, perché questa collezione sia trattata con le cure che si dedicano a un neonato, non con la superficialità di un oggetto di transizione. Questo atteggiamento generoso e responsabile perpetuerà l’affettuoso rimpianto di lui. E aumenterà la sua buona reputazione.

Ho conosciuto colleghi che hanno chiuso con l’azienda lasciando gli ultimi lavori sbrindellati, listini senza coerenza, contratti ammaccati, ore di chiacchiere alla macchinetta del caffè ricordando aneddoti più o meno divertenti delle loro gesta passate. E lasciandosi alle spalle una pessima reputazione.

L’ultima settimana si parla molto. Ma non di noi, del lavoro che lasciamo, a memoria del nostro operato e della nostra professionalità.

Ripercorrendo la mia carriera, mi rendo conto di avere beneficiato spesso della mia buona reputazione: almeno tre delle aziende per le quali ho lavorato mi hanno cercata perché qualche mio ex capo o ex collega ha parlato positivamente di me. Un ex dirigente degli orologi mi ha assunta per i reggiseni, una ex collega della moda mi ha raccomandata per Armani, un ex capo di Armani mi ha consigliata per il tennis. E altrettanto ho sempre fatto io con chi ha lavorato bene con me, con chi ha sorriso la prima settimana, ha parlato l’ultimo mese e si è ammalato solo quando girava una micidiale influenza.

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Mamma che paura!

PB   L’altra settimana Paola era alla ricerca , per una azienda importante di largo consumo, di un candidato per uno stage all’estero.

Contattati tre o quattro validi talenti tra i ragazzotti che ci capitano tra le mani (un po’ come Raffa a “The Voice”), in alcuni casi un sano terrore (Estero?! Mi sono appena fidanzata!) ha pervaso le risposte.

Avere paura è normale: io ho avuto un sacco di volte paura. Semplicemente dobbiamo sopportarla, esorcizzarla, camuffarla e soprattutto non rinunciare mai a fare qualcosa per colpa della paura.

La cosa più difficile che abbia mai fatto nella mia vita è stata prendere la patente (più dell’esame di latino con Cavaioni con traduzione di Tacito a vista).

Come si usava negli anni ’80, un affabile papà (con bava alla bocca e ghigno sardonico) mi urlava di schiacciare l’acceleratore (io effettivamente ero dinamica come un bradipo) anziché svernare all’uscita di un incrocio o nel parcheggio della Metro.

Quando lo ho poi schiacciato (troppo, evidentemente) mi sono schiantata contro un marciapiede (curva a destra) disintegrando due gomme (mio papà aveva la jeep Campagnola).

Quando ho avuto più paura di mio padre che della macchina (la questione delle gomme aveva reso meno gradevoli le lezioni) ho finalmente ottenuto la patente. Ho fatto l’esame con una 126 bianca e in riserva (si chiamava UGO, la 126) ed era il 1984, l’anno del nevone. Ho avuto più paura di rimanere senza benzina nel mezzo dell’esame che della neve (che in ogni modo è entrata, quell’anno, nella storia della protezione civile di Milano e per sempre nei miei incubi).

Ora ho la patente e non amo guidare (superare è rimasta per me una procedura piuttosto impegnativa, odio la Tangenziale, benedico la marcia automatica, non riconosco la mia automobile se non dal colore) ma faccio 40.000 km all’anno per andare a lavorare. E non potrei scrivere questo blog (cioè avere accumulato l’esperienza per scriverlo) se non avessi preso la patente (Dolce&Gabbana tra Milano a Legnano, Armani tra Como e Milano, Chantelle in via dei Missaglia, Tacchini a Novara).

Un’altra cosa di cui ho sempre avuto timore è passare pranzi e cene al ristorante da sola o con persone che non sono miei amici (per me la “cena di lavoro” è peggio della ceretta). Ma dopo aver mangiato camambert e baguette  in albergo da sola per troppe volte, ho deciso che era meglio vincere quel momento atroce in cui il cameriere ti chiede se sei sola (si, vabbé e allora?) e ti fa attraversare tutta la sala per posizionarti nel tavolino in fondo, ma poi mangiare l’anatra all’arancia in compagnia di un buon libro.

Paura di volare (che brutti i primi dieci minuti in cui si tappano le orecchie!), paura del traghetto (io sto seduta sui cassoni dei salvagente anche se vado all’Elba, e ben prima del naufragio Costa Concordia) , paura della moto (e se mi addormento mentre Erri curva?), paura del freddo (quando le dita della mano destra perdono sensibilità), paura della seggiovia (la odio, la odio: e se scivolo priva di sensi mentre è a 300 metri di altezza?), paura di sorpassare (a volte dietro una bisarca posso passare dei quarti d’ora a pianificare il momento buono per mettere la freccia), paura del dolore (no, non lo reggo), paura dei farmaci contro il dolore (e se mi viene uno shock anafilattico?), paura della solitudine (mai in una casa isolata, piuttosto vivere in un sottoscala affollato), paura della folla (durante i concerti a San Siro quando tutti vogliono il bis io voglio uscire e Erri vuole divorziare), paura di nuotare dove non tocco (se mi viene una congestione?), paura di tuffarmi dove tocco (se mi rompo l’osso del collo?)

In questa mia vita sprezzante del pericolo, ringrazio tutti quelli che mi hanno obbligato a fare qualcosa di cui avevo paura. Ringrazio anche l’imbarazzo , peggiore della paura, di ammettere che avevo paura.

Rendo noto per altro che sopravvivo allegramente (piena di amuleti, esorcismi, trucchi, superstizioni, riti magici e paure) e guido tutti i giorni, nuoto tutti i sabati, scio tutti gli inverni, volo tutti i mesi, prendo il traghetto d’estate, vivo in una casa poco isolata e poco affollata, quando ho il mal di testa prendo l’Aulin e al mare nuoto dove non tocco, ma parallelamente alla costa.

Che bello vincere la paura!

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Il successo passa dal lungo o dal breve?

PB  L’ultimo inserto del Corriere della Sera ( il Sette che ha ispirato il post di Paola sul “fattore S”) è una miniera di preziose gemme. Una fra tutte la famosa citazione di Arbasino a proposito del fatto che in Italia “c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di brillante promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerabile maestro”.

E a proposito di maestri, mi viene in mente uno degli insegnamenti che più mi sono stati utili , impartitomi dall’allora mio capo in Armani, Ing Fantò.

Lottavamo con passione per il successo di EA7, la linea di abbigliamento dedicato alla sport all’interno dell’offerta Armani. Ma proprio allo sport attivo (roba per andare a sciare o per fare le regate, non per passeggiare in Corso Vittorio Emanuele con look Sankt Moritz o Porto Cervo).

Si combatteva contro fattori di criticità esterna (chi avrebbe mai messo una giacca a vento di Armani per andare a sciare?) e fattori critici di credibilità interna (eravamo parte di una Business Unit nata una quarantina di anni prima per fare preziose cravatte di seta e sciarpe fil coupé: come potevamo essere quelli a cui affidare una linea di abbigliamento tecnico?)

Mentre costruivamo un ufficio prodotto, una rete commerciale, una distribuzione, una filosofia nuova, il mio capo mi faceva pressione su dettagli apparentemente poco importanti, su progetti paralleli a breve termine.

A me pareva di sacrificare energie preziose (di tempo, attenzione, risorse) a scapito del “grande progetto”. Era dunque importante solo per me? O più per me che per lui?

Fu a quel punto che Fantò mi spiegò quanto fosse determinante, per avere la fiducia su un progetto a lungo termine, dare prove di capacità, pillole di successo, anche su progetti temporalmente più vicini, più verificabili sul breve.

Le atmosfere, gli umori in azienda sono mutevoli. Soprattutto in un mondo, quello della moda, dove i manager possono cambiare con il ritmo delle cartelle colore. La delega per agire non ha garanzia di anni (anche per progetti che dovono durare anni e che rispettano il timing!) e la fiducia va mantenuta calda da tappe di avvicinamento che tatticamente servono a confortare la decisione presa.

E’ opportuno creare piccoli Show case di successo per avere la libertà intellettuale e il tempo necessario per agire profondamente su progetti a più ampio respiro.

Rifare completamente il catalogo della linea di Intimo (un progetto grafico a limitato impatto strategico) permise di avere un immediato impatto di comunicazione su chi lavorava alle collezioni: l’approccio parve subito nuovo, dinamico. I prodotti ebbero il tempo di essere rinnovati in un processo di almeno quattro stagioni (dallo stile, al piano taglie, alla commercializzazione), ma gli strumenti di vendita subito rinnovati diedero credibilità alla promessa. David Beckham in slip affisso sui muri della città, oltre a dare il buon umore a chi prendeva il tram ogni mattina per andare a lavorare, ha contribuito incosapevolmente alla realizzazione delle giacche a vento.

A chi comincia una carriera consiglio di lavorare sempre a grandi progetti (la visione strategica è parte del talento di chi lavora nel marketing), senza dimenticare però che i piccoli obiettivi a corollario (non necessariamente connessi) sono uno strumento per raggiungerli e non una dispersione di energie.

Guardare solo al lungo termine è spesso deleterio per mantenere la fiducia di chi ci ha affidato una missione e di chi ci deve seguire sul campo: la riuscita di un progetto (anche piccolo) è la più efficace delle motivazioni.

A me è capitato di mettere al centro della riuscita di una collezione il rispetto del timing perché sapevo che per la prima stagione era l’unico obiettivo che avremmo potuto raggiungere: ma non potevo permettermi una frustrazione di 12 mesi, prima dei quali non avremmo raggiunto obiettivi più importanti.

Sicuramente il mio capo era una brillante promessa (queste cose me le insegnava da Direttore Generale  e non aveva compiuto ancora quarant’anni) , posso dire di avere pensato ogni tanto di lui che fosse uno stronzo (chi non lo ha pensato del proprio capo almeno una volta?) ma certo è stato un maestro (sul “venerabile”  per il momento soprassiedo, lascio l’esclusiva a Arbasino e aspetto almeno che a Fantò vengano i capelli bianchi)

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La manutenzione: dai muscoli, passando per gli affetti, finendo nelle relazioni professionali

PB  Da qualche tempo in ufficio, abbiamo deciso che a pranzo si va in trattoria (il bar ci ha stufato) e soprattutto che ci si va a piedi. 20 minuti per andare. 20 minuti per tornare.

Esigenza partita dal desiderio di sgranchirsi le articolazioni stanche di troppa scrivania e di rientrare nella taglia di campionario dopo le intemperanze natalizie.

Gli effetti collaterali sono stati un approfondimento delle relazioni (40 minuti a piedi tutti i giorni ti fanno scoprire che la fidanzata dello stilista si occupa di food design, che la responsabile della comunicazione fa nordic walking, che il direttore amministrativo ha il sogno segreto di aprire un vivaio).

Così, tra ginnastica e conversazione, abbiamo fatto alcune riflessioni sul concetto di manutenzione.

Manutenzione degli oggetti (come lavare a mano il proprio pullover preferito o riparare in garage una Ducati Scrambler) o degli affetti (come avvisare se si arriva tardi, chiedere scusa se serve, fare una telefonata o un sorriso al di là dal superminimo a chi si ama).

Il principio è lo stesso per le proprie relazioni e le proprie competenze professionali

La manutenzione delle relazioni professionali

Non perdiamo di vista i professori che abbiamo stimato o i professionisti che ci hanno aiutato: teniamoli informati dei nostri progressi, teniamoci informati delle loro pubblicazioni e della loro carriera (per me il prof Bosisio dell’università, la Colavito di Manager Italia).

Teniamo d’occhio i colleghi o i collaboratori con i quali abbiamo costruito progetti, raggiunto risultati, che ci hanno insegnato un lavoro (per me la Marabini del commerciale di Armani, la Cicero dell’ufficio stile, la Carpaneto che è già comparsa sul Blog, l’infaticabile Simoni, la Robi Milan che mi ha iniziato alle pv…)

Sentiamo i capi che abbiamo stimato, che ci hanno stimato (per me la rossa  Ghisla in Chantelle, l’anglosassone Crespi in Dolce&Gabbana, il mitico Ing. Fantò in Armani)

Teniamo i contatti dei fornitori migliori, delle agenzie più interessanti, della aziende più vivaci con le quali siamo entrati in contatto.

La manutenzione delle competenze

Se abbiamo un talento o la sorte ci porta a dedicarci a un argomento che riteniamo di buon potenziale e che sentiamo nelle nostre corde, non accontentiamoci della sufficienza. Diventare un esperto, un punto di riferimento per un settore specifico, può diventare una carta preziosa da giocare per essere preferiti ad altri candidati nel momento del confronto. Quindi teniamoci aggiornati e allenati, facciamo manutenzione delle nostre competenze (linguistiche, tecniche o relazionali che siano).

Paola, la mia co blogger, sa bene che (per diventare esperti di bambini) si può cominciare come ricercatrice in università (il suo lavoro si trova ne  “Il dolce tuono” di Marco Lombardi), passare per una azienda di giocattoli, continuare facendo un bambino, poi la rappresentante di classe del bambino medesimo ed infine essere scelti da una agenzia che tra Arte e Comunicazione fa progetti per le scuole.

In ogni modo,  non multa sed multum (non molte cose, ma molto bene): tenete da conto e fate lavoro di manutenzione  solo per  gli argomenti (e le persone) più preziose. Come per gli affetti: la manutenzione non è per tutti quelli che conosciamo ma solo per gli amici del cuore.

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INTERVISTA A MATTEO ORLANDI BRAND MANAGER GIORGIO ARMANI

PC Matteo Orlandi si è laureato a Lugano, perché l’università offriva un corso di laurea in marketing e usava l’inglese come lingua ufficiale (opportunità che si sta valutando solo ora anche in Italia).

Matteo Orlandi

L’ho conosciuto che era il giovanissimo assistente marketing di un mio cliente, e anche in quel ruolo, necessariamente operativo, è riuscito a colpirmi per la sua precisione ed efficienza. Con una chiacchierata durante un pranzo di lavoro (che si svolgeva nel bar di una piscina pubblica, l’unico posto dove fosse possibile mangiare qualcosa nella periferia desolata di Agrate) ho scoperto – complice il contesto! – che era appassionato praticante di molti sport. Per questo, quando Patrizia mi ha chiesto di segnalarle un giovane product manager bravo e molto sportivo per il lancio della linea EA7 di Armani, non ho avuto dubbi che Matteo sarebbe stato perfetto (purtroppo la società mia cliente per la quale lavorava stava per cambiare proprietà, quindi sapevo di non creare problemi a nessuno favorendo un cambiamento che Matteo stava già sicuramente valutando).

A Orlandi, che quindi è da alcuni anni brand manager in Giorgio Armani, chiediamo innanzitutto perché pensa di essere stato scelto al tuo primo colloquio, cosa ha fatto la differenza?

Matteo Orlandi: “La sincerità. Al primo colloquio non sei mai preparato, ma mi sono presentato così com’ero: studente appena uscito dall’università e con poche esperienze sul campo. Ho messo in luce quelli che sapevo essere i miei punti di forza e quello che avrei voluto fare. Poi ho chiesto cosa cercavano, ed ho ascoltato tutto. Ricordo ancora la frase: sei disposto a viaggiare? I miei occhi si illuminarono.”

Trampolinodilancio:  “Cosa ti è servito di più nel primo anno di lavoro?”

Matteo Orlandi: “Ho avuto la fortuna di fare marketing, area dove le relazioni con le persone sono alla base. Oltre alle competenze universitarie, quello che ha contato di più è stato sapersi muovere a tutti i livelli: direttore, manager, colleghi, magazzino. L’università mi ha insegnato a parlare in pubblico, a fare presentazioni, ad avere idee e saperle raccontare.”

Trampolinodilancio:  “Cosa ti ha insegnato il tuo primo capo?”

Matteo Orlandi: “Il primo capo era il direttore trade marketing di una azienda di bicchieri. Non mi  ha insegnato molto in modo diretto, ma piuttosto ho osservato i suoi talenti. Era molto brava con i clienti, a trovare soluzioni per loro, fare prodotti ad hoc, lavorare sulle offerte e sui prezzi. Aveva uno spunto creativo per suggerire nuove collezioni e sapeva come dare al giusto cliente il giusto prodotto.”

Trampolinodilancio:  “Cosa ti ha insegnato il capo che consideri tuo mentore?”

Matteo Orlandi: “Da lui ho capito l’importanza dei numeri, del rigore, della sintesi. Si possono fare nel marketing tante cose, tutte belle e divertenti, ma è compito di chi fa questo mestiere trovare sempre il perché delle cose, dimostrarle con delle ricerche e portarle avanti con decisione. Ho visto anche cosa vuol dire fare scelte difficili perché giuste; ho imparato anche che non sempre ci sono soluzioni.”

Trampolinodilancio:  “Cosa vorresti aver studiato in più o di più nel tuo percorso scolastico?”

Matteo Orlandi: “Mi manca molto una competenza finanziaria e contabile. Durante gli studi è sempre stato per me il nodo più duro da sciogliere, ma ora manca un po’ la sicurezza su questi aspetti fondamentali.”

PB  Il brief datomi dal mio capo per trovare il product manager di EA7 era il seguente: giovane (il budget era basso e l’impresa necessitava una buona dose di inconsapevolezza) , bello (avrebbe dovuto lavorare direttamente con l’ufficio stile che appunto, sullo stile, è piuttosto intransigente), sportivo (no calcio, solo sport di nicchia, perché il calcio è monopolizzato dalle multinazionali e ha costi insostenibili), povero (cioè doveva essere affamato di successo, ambizioso, abituato a lottare per ottenere una posizione).

Matteo era indubbiamente giovane, di lineamenti delicati, faceva canottaggio. Non ho avuto cuore di chiedergli il conto in banca per verificare che fosse povero (anche le indicazioni del capo vanno filtrate). Quest’anno EA7 vestirà ufficialmente gli atleti Italiani durante le Olimpiadi 2012 di Londra. Se anche non era proprio povero povero, deve aver fatto un buon lavoro.

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INTERVISTA A NICOLO’ SABELLICO – DIRETTORE MARKETING NAUTOR’S SWAN

PC  Alla base del futuro nel lavoro, soprattutto in questo periodo di crisi, ci sono principalmente le relazioni: e non parlo solo dell’abilità nel mantenerle, ma anche dell’attitudine a entrare in contatto empaticamente con gli altri. Il successo di Nicolò Sabellico nasce anche dalla straordinaria abilità nell’entrare in relazione con i suoi interlocutori.

Dopo alcuni anni in Armani, dove ha iniziato nel Marketing e ha continuato nel Commerciale,  è oggi  il giovanissimo direttore marketing di Nautor’s Swan –  il produttore dei più prestigiosi yacht del mondo, del Gruppo Ferragamo.

Patrizia e io abbiamo conosciuto Nicolò quando sua sorella (nostra amica da sempre) mi ha chiesto, come favore, di fare una chiacchierata con il fratellino per aiutarlo a capire qual era la sua vera strada.

Nicolò, infatti, aveva cominciato a lavorare giovanissimo, parallelamente all’università, in una piccola azienda dove nel giro di pochi anni aveva fatto tutta la carriera possibile, rispondendo direttamente alla proprietà.

Quando l’ho incontrato la curiosità che esprimeva per il mondo del marketing, la sua voglia di capire e il suo entusiasmo sono stati talmente contagiosi che quando proprio il giorno dopo (il fattore “c” è sempre importante!) Patrizia mi ha chiesto di segnalarle un mio studente per uno stage le ho invece proposto di incontrare Nicolò, che è poi stato scelto.

Sabellico mi ha rilasciato l’intervista dal terminal di un aeroporto, in partenza per Mosca, insieme a Ferragamo, per incontrare un ministro russo, che sicuramente saprà conquistare con il suo sorriso e la sua genuina voglia di stabilire un contatto.

Trampolinodilancio:  Perché pensi di essere stato scelto al tuo primo colloquio, cosa ha fatto la differenza?

Nicolò Sabellico: E’ stato molto importante essere sincero e trasparente ma sicuro e determinato; chiaramente mi riferisco alla sessione di colloqui in Intai  (divisione di Armani) prima con Patrizia e poi con il perfido e temuto Ing. Fanto. Fantò aveva la fama del cinico licenziatore… una figura simile al Duca Conte Barambani. L’ultimo colloquio con Fantò è stato determinante nell’ultima fase , con questo scambio di battute: “Sabellico, ma se lei dovesse scegliere tra…”  io non avevo neppure capito la domanda, così dopo una pausa di riflessione ho risposto: “ Senta, io andrei in ginocchio dalla Bolzoni a chiedere di spiegarmi la sua domanda  che francamente non ho minimamente capito”. Lui mi ha risposto: “Risposta esatta Sabellico, lei è pazzo ma mi piace, quando cominciamo?”

Trampolinodilancio:  Cosa ti è servito di più nel primo anno di lavoro?

Nicolò Sabellico: Ordine, disciplina, gestione del tempo, gestione delle priorità

Trampolinodilancio:  Cosa ti ha insegnato il tuo primo capo?

Nicolò Sabellico: Correttezza, educazione e rispetto

Trampolinodilancio:  Cosa ti ha insegnato il capo che consideri tuo mentore?

Nicolò Sabellico: Mi ha fatto capire che il lavoro, e in particolare il marketing, è prima di tutto buon senso , e il buon senso si ottiene dalla curiosità per tutto.

Trampolinodilancio:  Cosa vorresti aver studiato in più o di più nel tuo percorso scolastico?

Nicolò Sabellico: Le lingue straniere… non saperle ( molto bene) rappresenta un grave ostacolo.

PB Per chiudere l’intervista, aggiungerei, che il Sabellico era energetico e ipercinetico (caratteristica utile in alcuni ambienti lavorativi dove la nobile indolenza ha bisogno di un’iniezione di plasma), seducente con uomini e donne, gentile con le secchione della contabilità e le vampire da show room. Aveva la freschezza della pietra grezza. E le potenzialità di un sofisticato gioiello. Materiale interessante per una azienda a cui interessa investire sulle risorse umane.

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Il gergo aziendale come segnale di appartenenza

PC I diversi modi di dire grigio in Armani di cui parla Patrizia nel post “Saper interpretare lo spirito della marca “mi ricordano i quindici modi di chiamare la neve

degli eschimesi (c’è chi afferma siano addirittura 40) e mi fanno pensare a quanto sia importante imparare – in brevissimo tempo – il gergo aziendale, proprio come se fosse la lingua del paese nel quale ci si è trasferiti, come primo, inevitabile passaggio per assimilarne la cultura.

Per un comunicatore è ancora più difficile perché si troverà a parlare con tanti clienti diversi, ognuno con la sua terminologia particolare: con Telefunken e Samsung ho imparato che nel mondo dell’elettrodomestico si parla di bianco e bruno, in Lindt si passa invece dal quadrotto di Lindt Excellence alla boule di Lindor, in Barilla parlare di spaghetti non ha senso, si dice i n° 5, proprio come il profumo Chanel, mentre la bottiglietta in vetro originale dell’aranciata San Pellegrino è la clava.

In Luxottica mi hanno recentemente tirato le orecchie perché quelle dell’occhiale sono le aste, non le stanghette, ma non è nulla in confronto a quando ho chiamato scotch il nastro adesivo della Henkel, usando  il nome del principale concorrente. In Montblanc non si parla mai di penne, ma di strumenti di scrittura.

Non solo;  anche l’ortografia richiede precisione, se si vuole dimostrare di essere davvero interessati al cliente o all’azienda per la quale si fa un colloquio. Swarovski si scrive senza “y”, Illva ha due “l”, Kellogg’s due “g”, la margarina Valle’ ha l’apostrofo e non l’accento, la vodka Artic la “c” e non la “k”.

Se tutti sanno che il logo della Nike è il baffo (o swoosh a livello internazionale) , molti probabilmente ignorano che  il simbolo del logo Vodafone si chiama la goccia, e solo quelli della nostra generazione si ricordano il bambino che si leccava le dita alla fine delle pubblicità Invernizzi, rimasto nel logo, che si chiama il moretto, anche se è bianco.

Infine nominare la parola Amaretto in Illva potrebbe attirare sul vostro capo un fulmine divino: il celebre liquore si chiama ormai solo Disaronno.

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La ricerca del personale e Facebook

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Image via CrunchBase

PC Ieri ho partecipato all’interessante convegno JobMatching organizzato da Stefano Saladino, dove si è parlato molto di personal branding sui social media. La cosa che più mi ha colpito è il fatto che anche il profilo personale su Facebook è ormai sempre più spesso visionato da chi fa ricerca del personale. In sostanza se sottoponete una candidatura per un posto di lavoro è probabile che chi deve selezionarvi controlli non solo, come è ovvio, il vostro profilo su LinkedIn ma anche quello su Facebook.

Le implicazioni sono molte: innanzitutto dovrete assicurarvi di inserire nel profilo di Facebook le opportune restrizioni di privacy, se temete che la foto in cui ballate su un tavolo in uno dei peggiori bar di Caracas non sia il miglior biglietto da visita per un impiego come affidabile pr in una grande multinazionale (anche se potrebbe dimostrare la vostra affinità con il prodotto, se volete entrare nel marketing di Ron Pampero). Inoltre potreste orientare la vostra presenza su Facebook per far emergere alcune vostre doti. E’ consigliabile per esempio che un aspirante copywriter posti spesso degli scritti che ne dimostrino le capacità, piuttosto che le foto del suo gatto, mentre un art director potrà sbizzarrirsi nel caricare foto con ambizioni artistiche. Ci sono poi delle competenze meno ufficiali di quelle che segnalereste su LinkedIn, che potrebbero rivelarsi interessanti per il vostro futuro datore di lavoro. Ricordo che proprio la passione per gli sport fu la caratteristica decisiva che fece scegliere un mio giovane amico e cliente in Armani, perchè Patrizia cercava una persona che oltre a conoscere il marketing e le lingue, fosse uno sportivo vero a cui affidare la linea EA 7 di Armani.

Ieri si è anche arrivati a consigliare di utilizzare sempre la stessa foto di profilo su tutte le piattaforme nelle quali si è presenti, per facilitare il proprio branding e la riconoscibilità. Su questo punto non sono personalmente molto d’accordo. Ritengo che su LinkedIn sia corretto inserire una foto più istituzionale (nella mia, che è stata fatta e opportunamente photoshoppata da un fotografo, io indosso ovviamente la canonica camicia bianca) mentre su Facebook è più spontaneo aggiornare spesso la propria foto, con immagini reali che diano un senso di contemporaneità e creino vicinanza con i propri contatti (si chiamano amici, non a caso).

Sean Moffitt e Mike Dover nel loro bellissimo Wikibrands, del quale è appena uscita l’edizione italiana a cura di Marco Lombardi, suggeriscono di mantenere due strategie di approccio ben differenti per le due più importanti piattaforme sociali. Giustamente consigliano di considerare LinkedIn come un completo di flanella grigio e Facebook come una camicia hawaiana: entrambe possono giocare un ruolo utile nel guardaroba di chiunque (purchè americano!), ma nessuno parteciperebbe a una riunione con una camicia hawaiana o andrebbe a un party indossando un completo grigio, a meno di non voler apparire come minimo arrogante.

Questa flessibilità nel proprio personal branding è in fondo esattamente quello che consigliamo anche alle brand vere e proprie, che si devono presentare in modi diversi a seconda dei contesti, mantenendo comunque la propria identità

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