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COVER LETTER: I CINQUE MODI MIGLIORI PER NON FARSI CHIAMARE PER UN COLLOQUIO

PC Ho conosciuto Giovanni Zezza grazie a Marco Lombardi che lo teletrasportava dalla Young & Rubicam in Iulm perché spiegasse agli studenti come funziona veramente “là fuori”. Ha continuato a venire anche dopo essere passato in Deliveroo, una nuova realtà in espansione che comprensibilmente attira molte proposte di giovani, e non solo, candidati. In 12 anni di esperienza tra agenzie pubblicitarie e aziende digitali ha potuto così completare una conoscenza dei diversi approcci alla richiesta di lavoro, che ci ha gentilmente distillato. Gustateveli tutti di un sorso, come uno spritz estivo, ma poi – prima di scrivere una cover letter – riassaporateli con la concentrazione che merita un buon rhum.

Giovanni Zezza Head of Marketing Deliveroo

Giovanni Zezza Head of Marketing Deliveroo

Giovanni Zezza: “Fare un colloquio è come ballare il tango: bisogna saper sedurre, muoversi in modo da lasciare un segno, usare tecnica e passione.

Ma per ballare un tango è necessario essere in due. E per fare un colloquio è necessario farsi chiamare dopo l’invio del cv.
La cover letter è l’inizio di questo processo di seduzione: un passaggio imprescindibile per avere l’opportunità di ballare il vostro tango.

Ecco dunque una classifica dei 5 modi migliori per NON essere richiamati dopo aver inviato un cv.
E tutti, drammaticamente, tratti da storie vere.

5° POSTO: “VORREI LAVORARE CON VOI”
Arriva una mail con allegato un cv con scritto “Vorrei tanto lavorare con voi” e nient’altro.
Ora in un’azienda ci sono ruoli e responsabilità diversi, tutti importanti ma con qualifiche differenti.
Vuoi fare il direttore marketing, lavorare nel commerciale o occuparti dei servizi di pulizia?
Sperare che il direttore delle risorse umane si metta a spulciare il vostro cv cercando di capire dove eventualmente potreste essere inseriti, alla luce della vostra incontenibile voglia di lavorare con l’azienda, è probabile quanto che le scie chimiche siano davvero dannose.

4° POSTO: NDO COJO COJO
Che per chi non è pratico di romano vuol dire: va bene un po’ tutto.
A cosa faccio riferimento? Mi spiego subito.
Se siete idonei per la stessa posizione in due aziende competitor, questa è una grande opportunità per voi: più occasioni per essere scelti per fare il lavoro che fa per voi.
Tuttavia mandare il cv contemporaneamente alle due aziende competitor nella stessa mail, non aumenterà le vostre possibilità di essere assunti: se non avete una preferenza tra le due, almeno fingete di averla.
Sarebbe come dire a Coca-Cola che di base bere la loro bevanda o una Pepsi non cambia nulla.
Se volete fare un test per vedere cosa succede, vi lascio il numero del brand manager.

3° POSTO: ALMENO HAI QUALCOSA DA LEGGERE
Leggere è così rilassante e ci sono titoli per tutti i gusti: dai libri di Fabio Volo a quelli di Tolstoj a Topolino quando si è impegnati in “situazioni private”.
Nonostante il fatto che un buon recruiter è sicuramente una persona di buona cultura e quindi legge spesso e volentieri, mandare un cv dicendo “così avete qualcosa da leggere” è un passo un po’ azzardato.
Chi di noi non ha voglia di leggere due pagine di cv per rilassarsi prima di dormire? Perché rubare Topolino al proprio figlio quando puoi leggerti un bel cv?
Del resto, quando sei annoiato o guardi un bel factual su Real Time o ti leggi un avvincente cv, no?

2° POSTO: MALATTIE INVALIDANTI
Qui si entra in zona calda della classifica. Se fossimo a Top of The Pops il pubblico sarebbe in delirio, e spero lo siate anche voi.
Parliamo di motivazione: è fondamentale scrivere perché si è interessati ad un posto di lavoro. Ma, ecco, esattamente come a un fidanzato non è strettamente necessario dire proprio tutto-tutto-tutto, lo stesso vale per un potenziale datore di lavoro.
Dire che hai delle malattie invalidanti di origine psicologica, ad esempio, oltre ad essere un’auto-rinuncia ad uno dei diritti dei lavoratori (l’azienda deve essere solo a conoscenza dell’idoneità del lavoratore a svolgere la sua mansione, non della sua intera cartella clinica), non è assolutamente un buon biglietto da visita: in primis perché fa pensare che il candidato non sarà in grado di portare a termine le sue mansioni e, secondo poi, perché un’azienda non è la Caritas.
Voi chiamereste per un colloquio qualcuno che vi ha già espresso il suo disagio psicologico?
Nessuno è “normale” ma lasciate che i vostri datori di lavoro lo scoprano dopo il periodo di prova, non nella cover letter.

1° POSTO: BUONA MORALITÀ
Rullo di tamburi, apriamo la busta, the winner is: quello che manda il cv sottolineando che è una persona di “buona moralità”.
Ora tenete presente che di quello che fate al di fuori dell’ufficio, teoricamente, al vostro datore di lavoro interessa poco. Figuriamoci della vostra moralità, che tra l’altro oggi è un concetto piuttosto soggettivo.
Se poi la “buona moralità” è pari alla “buona conoscenza dell’inglese” che leggo in tutti i cv di persone che non sanno manco dire “How are you?”, allora è un’informazione inutile anche per mandare il cv presso un convento o una parrocchia, visto che, nella migliore delle ipotesi, sarete un incrocio tra Gambadilegno e La Banda Bassotti, giusto per restare nella tematica Topolino tanto cara a chi scrive.

Quindi ragazzi e meno ragazzi (perché questi e/orrori arrivano anche da persone molto senior) la cover letter è fondamentale – e su questo blog trovate tutte le indicazioni, più serie di questo post, per prepararla bene – ma occhio a quello che scrivete.
Perché nella migliore delle ipotesi non venite richiamati, nella peggiore finite in una cartella “Perle” per essere riletti nei momenti bui dell’azienda dove avete fatto application.”

Giovanni Zezza
Head of Marketing, Deliveroo Italy.

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Alessandro Giua ci presenta la prima guida italiana ai salari nell’ambito creative & tech e ci racconta com’è lavorare a Londra e perché prima o poi tornerà a Milano.

PC Alessandro Giua, dopo aver creato Crebs, che da più di quattro anni aiuta migliaia di aziende, dalle grandi imprese internazionali alle startup più innovative, a trovare i migliori profili specializzati, ha deciso di fornire un altro utilissimo strumento per far incontrare domanda e offerta: la prima guida in Italia agli stipendi nel settore creative & tech, per mettere a disposizione di tutti gli utenti Crebs un nuovo metro di giudizio e di valutazione, più trasparenza e informazione, cioè la base necessaria per una mediazione il più possibile corretta e costruttiva tra impresa virtuosa e riconoscimento delle competenze e della dignità del lavoratore. Perché, come ci spiega Alessandro, c’è un solo modo per trovare il candidato ideale: innanzitutto, offrire il giusto compenso.salari

I dati della guida sono estratti da un sondaggio promosso da Crebs, svolto in forma anonima tra i professionisti del settore. I risultati della statistica, che verranno periodicamente monitorati e aggiornati sulla base delle risposte dei nostri utenti, sono ancora parziali e puramente indicativi. Ma partendo da questi dati, e intersecandoli con altri, si può ricavare una media significativa, ed eventualmente utilizzarla, se professionisti, per negoziare il proprio stipendio, o, nel caso di un’azienda, per confrontarsi con nuove figure professionali.

Dato che mio figlio si avvicina al momento in cui dovrà scegliere “cosa fare da grande” spesso mi chiedo se sia meglio per un giovane mettersi alla prova direttamente creando una startup o cominciare in una grande agenzia dalla quale attingere esperienza e metodi. Quando mi imbatto in quelli come Alessandro che riescono a fare entrambe le cose prevale la curiosità di farsi raccontare come riesce a conciliare una carriera canonica con una grande passione, che sicuramente contribuisce al suo personal branding. Complice il fatto che conosco i suoi genitori dai tempi di Young & Rubicam approfitto del suo pochissimo tempo libero per chiedergli di spiegarci le sue scelte dall’ultima intervista che gli abbiamo fatto quando nel 2012 Crebs è stato linkato a trampolinodilancio. Come sempre Alessandro dimostra grande generosità nella sua risposta ricca di spunti interessanti.

GIUA

ALESSANDRO GIUA DIGITAL ART DIRECTOR, CREATORE DI CREBS

Alessandro Giua: Da quando hai pubblicato l’intervista nel blog, è passato un po’ di tempo e sono cambiate delle cose. E sono cambiato anche io: adesso ho la barba 🙂 Continuo a fare il mio mestiere di designer e art director, e cerco di farlo meglio, con un percorso che è ovviamente pubblico e che ho aggiornato da poco: su Linkedin, su Behance, nel mio sito: http://www.alessandrogiua.it/

Nel 2013 sono passato da Cayenne a DGT Media, come Senior art director e in seguito Deputy creative director. È stato un periodo interessante per la mia crescita professionale, ma anche faticoso. Tra il 2014 e il 2015 ho cominciato a sentire l’esigenza di mettermi alla prova in un contesto diverso da quello italiano. In Italia si parla tanto, troppo, di “innovazione”, di “rivoluzione” digitale, ma c’è ancora confusione, a volte si fa fatica a lavorare in modo lineare. Posso dire una cattiveria dedicata a tutti i “nativi digitali” come me? Se c’è una cosa di cui ho nostalgia quando penso a Milano, non è tanto la presunta “innovazione”, ma è, semmai, la solida base della “vecchia” scuola dell’advertising, del design, della creatività. Quella da cui provieni tu o i miei genitori, e che per me è un importante riferimento con cui non posso fare a meno di confrontarmi.

E se parlo di “nostalgia”, è perché ho lasciato Milano: ho accettato la proposta di una digital production company e mi sono trasferito a Londra. Non è stata una decisione facile: perdevo un ruolo interessante; lasciavo molte comodità; ma era un passo necessario. La prima soddisfazione è stata quella di lavorare a stretto contatto, finalmente, con degli ottimi developer, tra cui degli italiani che sfiorano la pura genialità. Molto bravi. E poi ho conosciuto un ambiente vivace, in continuo movimento, con un ricambio continuo. Perciò molto stimolante. Tanto stimolante che, dopo sei mesi, ho già cambiato agenzia. Adesso lavoro per Fetch, una delle più importanti agenzie tra quelle specializzate nel settore mobile. Molto marketing & strategy, perciò un po’ ostica per un creativo puro, ma è un’esperienza necessaria, perché il mobile è fondamentale, ti cambia il modo di pensare, di progettare. “Be truly mobile first”, dice il mio nuovo direttore creativo.

Poi, che altro? A Londra imparo l’inglese che non ho imparato nelle scuole di Milano (ho imparato anche a farmi le lavatrici, ma questa è un’altra storia). Ho a che fare con agenzie meglio strutturate, conosco nuovi trend e li sperimento subito sul campo. Mi concentro sul digitale in modo diverso, come non avrei mai potuto fare in Italia, vuoi per i budget, vuoi per i media a disposizione del creativo. A Londra ci sono pannelli interattivi dappertutto, il mobile è usatissimo (certo, anche in Italia, però con la differenza che a Londra con il tuo lavoro parli a 8 milioni di persone, a Milano a 1 milione; e poi, per dire, qui faccio un video che ti passa la BBC e fa il giro del mondo, che è una bella differenza).

A Londra ci sono tante possibilità per il creativo di oggi, che deve avere molte più conoscenze per spaziare da un mezzo all’altro. Ed è proprio qui che mi aiuta Londra, ad aprire la mente, a proiettarmi in un universo molto più affascinante. Certo, c’è competizione tra le persone, ma per ora la vedo in modo positivo. C’è gente molto brava, che proviene da tutto il mondo. Nel mio ufficio ci sono inglesi, giapponesi, indiani, francesi, irlandesi, tedeschi, americani, e un italiano (io). Dove lavoravo prima, a Milano, non c’era neanche uno straniero. E si pensa più in grande: cambiano i budget, ma non solo per questo il digitale qui è fatto veramente bene. Ma direi che tutto, advertising, marketing, digitale, sono fatti con competenza, e soprattutto senza quella confusione o approssimazione che percepisco in Italia, con le agenzie classiche che non sanno fare digitale, e le web agency che non sanno fare adv. Qui c’è commistione di generi e tante nuove professioni, ma è tutto perfettamente integrato. E poi ci metterei anche i motivi più personali: musica ovunque, una scena artistica in movimento, tante cose alla portata di tutti, senza inviti speciali, senza esclusive da prima blindata alla Scala. E soprattutto una scena più internazionale, forse l’unica cosa bella della “globalizzazione”: per dire, in questo preciso istante posso contattare un asiatico e lavorare insieme.

Trampolinodilancio: Come sei riuscito a mantenere il tuo impegno per Crebs in questi anni?logo

Alessandro Giua: Malgrado i nuovi impegni con il mio lavoro abituale, Crebs va avanti, e non potrebbe essere altrimenti (tu pensa che tutte le volte che ho cambiato posto di lavoro, in Italia come a Londra, una delle prime cose che dicevo nel colloquio era: io faccio anche Crebs, serve a migliaia di colleghi, e devo avere il tempo per farlo). Anzi, ci sono stati molti miglioramenti e novità da quando ci siamo sentiti l’ultima volta. Novità che non si vedono, nascoste nel motore, e altre più evidenti, come certe funzioni.

Trampolinodilancio: Da cosa nasce l’idea della Guida agli stipendi nell’ambito creative & tech?

Alessandro Giua: La guida nasce anche da una sofferenza personale per la mancanza di regole precise nell’ambito lavorativo in Italia, per quella confusione dei ruoli che, invece, non ho trovato a Londra. Confusione che si tramuta subito in una mancata soddisfazione anche economica da parte di molti colleghi e utenti di Crebs. E Crebs, è bene ricordarlo, è nato più come progetto “sociale” che come modello di business (i primi tre anni abbiamo lavorato con molto impegno, ma gratis, sempre a nostre spese), per aiutare le aziende e i professionisti ad incontrarsi attraverso degli annunci selezionati che rispettassero certe prerogative, e soprattutto la dignità, anche salariale, del lavoratore. Così è nato anche il sondaggio, che è sempre in progress, in costante aggiornamento; impreciso come tutti i sondaggi, ma utile perché indicativo e perché tende a stabilire una forchetta degli stipendi, dei limiti sotto cui non si può scendere.

Trampolinodilancio: Cos’altro ci dobbiamo aspettare da Crebs?

Alessandro Giua: Tutte le altre iniziative che seguiranno al sondaggio, come per esempio la piccola “enciclopedia” delle vecchie e nuove professioni, serviranno proprio a superare la confusione di cui parlavo, del ruolo, dei compiti, delle funzioni. Confusione – che io chiamo “colpevole”, perché serve a livellare i compensi, a pagare meno le competenze di chi è più specializzato degli altri – che può essere superata guardando a ciò che avviene all’estero, e ricordandosi che, giocando al ribasso, pagando meno del dovuto, è la qualità del lavoro che ne risente: alla fine non crescono le aziende, e non crescono i professionisti. Cito qualche caso, tanto per chiarire. Il project manager dovrebbe occuparsi della gestione del progetto, ma in Italia deve occuparsi anche di wireframing (lavoro da UX designer) o di gestione del cliente (che dovrebbe essere compito dell’account). Stessa cosa per il social media manager, figura differente dal community manager e dal social media strategist, ma spesso nelle agenzie italiane si tende a fondere tutte queste competenze in una figura-factotum, in un figaro qua figaro là. Senza parlare, poi, della confusione quando un’agenzia chiama un developer e confonde linguaggi di programmazione con linguaggi di markup.

Ma è possibile che in Italia non ci si renda conto che le figure professionali cambiano e si rinnovano alla stessa velocità dei mezzi? Prendi il ruolo del copywriter, come cambia. Le aziende hanno bisogno di copy che scrivano titoli e articoli usando un linguaggio che deve piacere, innanzitutto, ai motori di ricerca. C’era il CEO di Mashable, la rivista online di tecnologia tra le più lette al mondo (30 milioni di pagine visualizzate al mese), che alla domanda del giornalista “cosa cerchi in uno che scrive per te”, rispose “innanzitutto velocità e scrittura che favoriscano le visualizzazioni”. E perché le visualizzazioni? Perché sono fondamentali per i magazine online: l’inserzionista paga il giornale proprio per quelle.

Insomma, è un futuro in movimento, ed è un movimento a cui Crebs vuole partecipare, nel suo piccolo, anche con qualche azione solidale nei confronti dei colleghi, degli utenti. A volte mi dico che non è un caso che Crebs sia nato a Milano, e non mi riferisco soltanto alla Milano operosa, autodeterminata, aperta e solidale di cui anche un ventenne come me conosce certi stereotipi. Penso a Milano come luogo ideale per fare attivare online uno scambio produttivo tra aziende e nuove professioni, mettendo in contatto nord e sud, profonda provincia e grandi aree metropolitane, con una particolare attenzione ai giovani che cercano di uscire con le proprie gambe dall’inattività e dalla disoccupazione. Questo è quello che abbiamo provato a fare negli ultimi quattro anni, e il successo di Crebs dimostra che il progetto funziona. A chi l’ha sostenuto sinora, ai suoi utenti, a tutti gli amici di Crebs, è dedicata la guida che abbiamo appena pubblicato.

 

E ad Alessandro va il nostro ringraziamento per la guida (ho subito dato una sbirciata ai corretti livelli di stipendio di mercato!) e per tutto quello che seguirà e l’augurio di continuare a stupirci con la sua inesauribile carica di energia e di entusiasmo.

 

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Vicky Gitto ci racconta la campagna Punto su di te, contro la disparità di salario tra donne e uomini

PC Dare al lavoro delle donne il giusto valore è l’obiettivo della seconda fase della campagna Punto su di te, di Pubblicità Progresso, contro la discriminazione femminile e in particolare contro la disparità di salario, che in Italia arriva al 30%. Ne abbiamo parlato con Vicky Gitto che ne ha curato la direzione creativa. Dato che Gitto è stato recentemente nominato Presidente di Y&R Group, che ora dirige insieme a Simona Maggini, promossa ad amministratore delegato, abbiamo approfittato anche per capire come questa giovane coppia, con una donna in una posizione di grande peso, intende mantenere in agenzia un clima che dia la massima possibilità di espressione e carriera sia ai giovani che alle donne.

Un’intervista molto interessante sia per chi desidera capire come si lavora in una “grande scuola” della comunicazione, sia per chi vuole capire meglio la genesi di una campagna pubblicitaria in ambito sociale. Proprio di comunicazione sociale si occuperà il nuovo corso in Iulm di cui sono co-titolare con Marco Lombardi e abbiamo quindi invitato Vicky Gitto a raccontare ai nostri studenti ancora più dettagliatamente l’iter creativo della campagna. Speriamo che la lezione e questa intervista aiutino le nostre lettrici e le nostre studentesse ad affrontare con maggiore autostima i colloqui di lavoro e a non avere remore a chiedere quello che meritano.

Ricordatevi che ottenere un colloquio con Vicky Gitto, Simona Maggini o un altro dei manager di WPP è più semplice di quanto pensiate, è sufficiente comprare uno dei testi che usiamo come manuali in Iulm, inviare una email, compilare una scheda e aspettare di essere chiamati (ci si deve poi presentare al colloquio con il libro). La proposta è presentata anche nel sito di FrancoAngeli http://www.francoangeli.it nelle pagine dedicate ai due libri di Marco Lombardi: qui http://bit.ly/1f2elrF e qui http://bit.ly/1I0ZFQm.

Una sola raccomandazione: non è sufficiente comprare i libri, meglio anche leggerli, non solo perché sono utili se volete fare questo mestiere ma anche perchè Vicky Gitto è autore di un capitolo del libro sulla creatività e Simona Maggini conosce molto bene quello sulla strategia che usiamo nel corso di Brand Lab. di cui è cultore della materia!

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Una chiave per aprire il mondo della comunicazione

PC Da anni i testi di Marco Lombardi che usiamo in università aiutano i giovani talenti a entrare formati e preparati nel mondo della comunicazione. Da oggi però l’aiuto che lo studio di questi libri fornisce diventa un’opportunità concreta di farsi conoscere e dimostrare il proprio talento. Infatti acquistando la nuova edizione di La strategia in pubblicità e La creatività in pubblicità c’è la possibilità di fare un colloquio con professionisti di WPP, il più grande gruppo di comunicazione del mondo.

Marco Lombardi

Marco Lombardi

Il tutto avviene in modo semplice: da giugno 2015 a giugno 2016 chi acquista o ha acquistato uno di questi libri per studiarci ha anche l’opportunità di richiedere un colloquio con un direttore creativo o con un manager di WPP, il più grande gruppo al mondo di comunicazione integrata, a cui fanno capo in Italia più di 50 società in 8 diverse discipline : Advertising (Grey United, JWT, Ogilvy, Y&R Group, Red Cell e altre), PR (Burson Marsteller, Hill & Knowlton e altre), Media (Group M, Mec, Mindshare e altre), Healthcare (Sudler & Hennessey, Intramed e altre), Consumer Insight (Millward Brown, TNS e altre), Branding & Identity (Landor e altre), Direct, Promotion & Relationship Marketing (LGM, Wunderman e altre), Digital (H Art, VML e altre). È  il gruppo dove Marco Lombardi ha trascorso tutta la sua carriera (è tuttora presidente di Young & Rubicam) e dove abbiamo avuto modo di lavorare per anni insieme.

Questa opportunità è annunciata direttamente sulla copertina dei due libri di Marco Lombardi con un talloncino giallo che rinvia ad una pagina interna dove si spiega come procedere: basta inviare una email, compilare una scheda e aspettare di essere chiamati (ci si deve poi presentare al colloquio con il libro). La proposta è presentata anche nel sito di FrancoAngeli http://www.francoangeli.it nelle pagine dedicate ai due libri di Marco Lombardi: qui http://bit.ly/1f2elrF e qui http://bit.ly/1I0ZFQm

creat nuova“Questa iniziativa – ci spiega Marco Lombardi  – nasce dalla consapevolezza che nel mondo della comunicazione, alle generali difficoltà connesse con i disinvestimenti post 2008, si unisce una particolare difficoltà per un giovane nel farsi conoscere, nell’accedere a un colloquio con i professionisti di alto livello, per un orientamento, una valutazione e un eventuale ingresso.”

L’intento dei promotori – l’editore FrancoAngeli e WPP – è quindi in primo luogo quello di contribuire a mettere in contatto il mondo delle professioni con quello dei giovani che aspirano ad entrarvi; in secondo luogo di sottolineare l’idea che il libro e il suo studio siano ancora la chiave privilegiata d’accesso per entrare nel mondo del lavoro: una conferma concreta del fatto che se si sviluppa l’apprendimento si trovano anche le opportunità di lavoro.

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DALLA MOTO ALL’UFFICIO. ALTRI CONSIGLI PER GIOVANI IN MOTO VERSO IL SUCCESSO.

PC Anche quest’anno il viaggetto estivo in moto frutta una riflessione che spero possa essere utile a tanti giovani insoddisfatti della loro attuale condizione lavorativa.mucca

Quando organizzo con mio marito un viaggio di solito ho un’idea molto precisa del luogo nel quale trascorreremo i giorni di vacanza: una serie di aspettative legate ai racconti di chi ci è già stato, alcune informazioni immagazzinate sfogliando la guida prima di crollare addormentata sul divano, delle immagini rimaste impresse dopo aver navigato su internet.

Ma un viaggio in moto è fatto anche da lunghi spostamenti che ogni buon motociclista programma in modo da fare strade tortuose e poco trafficate, anche se più lunghe e meno dirette rispetto all’autostrada.

Quasi sempre succede che in questi trasferimenti veda delle immagini, senta dei profumi, ascolti dei suoni destinati a colpirmi ancora di più di quello che mi aspetta a destinazione. Quest’anno sono state delle mucche bianche accoccolate sotto gli alberi, dei falchi che si incrociavano in cielo, delle enormi galline in ferro battuto che si ergevano fiere come monumento principale nei piccoli borghi della Bresse, a simbolo del prodotto più tipico della regione.  In fondo più memorabili, forse perché inaspettati, della meta finale, la Borgogna.

Quasi tutti i giovani con cui parlo hanno un obiettivo in mente ben preciso (e sono tutt’altro che apatici, sdraiati e mammoni), ma si ritrovano nel percorso che li porterà al loro lavoro ideale (che mi auguro non sia né lungo né tortuoso) ad accettare stage o occupazioni che non li soddisfano pienamente.

Il mio suggerimento è di non considerare queste esperienze solo come un tratto di vita che è necessario superare velocemente, ma di osservare e studiare la situazione per cercare di immagazzinare nozioni potranno essere utili in futuro. Ad esempio:

  1. Di un settore che non vi piace cercate comunque di comprendere le logiche. Vi aprirà la mente e vi potrebbe essere utile quando l’azienda dei vostri sogni acquisirà un’azienda in quel mercato. Oppure vi potrebbe servire a capire il punto di vista di persone con le quali vi dovrete in futuro confrontare. Nel marketing ad esempio poche cose servono di più che aver svolto un’esperienza di vendita, che vi permetterà di comprendere le esigenze delle funzione vendite quando dovrete far approvare i vostri ambiziosi piani di marketing.
  2. Di un capo che non vi piace cercate di capire perché non vi piace. Questo vi aiuterà a selezionare in futuro a quale persona legarvi per crescere e a capire che tipo di capo vorrete a vostra volta diventare.
  3. Mentre svolgete un lavoro che vi annoia cercate di migliorare le vostre capacità di osservazione. Mi raccontava Vincenzo Vigo che prima di riuscire a fare il copy writer e lo scrittore (ora dirige l’agenzia di pubblicità Mosquito, dopo essere stato direttore creativo in Armando Testa, Young&Rubicam, Red Cell) l’esperienza allo sportello di una piccola banca siciliana gli è servita a conoscere un amplissimo e svariato catalogo di persone e situazioni.
  4. Evitate i colleghi che passano il tempo a criticare la situazione nella quale si trovano. Non migliorerà minimamente la vostra situazione e contribuirà solo a deprimervi maggiormente.
  5. Approfittate del fatto che il lavoro che svolgete non vi coinvolge al 100% per sfruttare le energie mentali che vi rimangono per approfondire un argomento di studio o imparare una lingua.

E ovviamente non smettete di sperare e di impegnarvi per raggiungere il vostro obiettivo finale. Bonne route!

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La parola allo stagista

PC Continuiamo le interviste agli stagisti facendoci raccontare da Tecla Lionello, una mia studentessa del corso di Brand Lab in Iulm, quali passi ha dovuto compiere per trovare uno stage, cosa significa essere stagisti e cosa bisogna fare per realizzare il sogno di lavorare per uno dei propri lovemark.

Trampolinodilancio: Quanto tempo ti è servito per trovare uno stage? 

Tecla Lionello: “Sono stata molto fortunata, una settimana dopo aver iniziato ad inviare i primi CV mi hanno subito contattato per dei colloqui conoscitivi. L’iter di selezione non è stato lungo, due colloqui in tutto, al contrario, le pratiche burocratiche hanno rallentato il mio inserimento. In pratica, è passato circa un mese e mezzo dal primo colloquio all’entrata in azienda”.

Che tipo di stage cercavi? “Il mio sogno sarebbe stato fare uno stage in marketing per uno dei miei lovemark, Club Med, per il quale ho lavorato diversi anni come animatrice bimbi durante il periodo estivo. In realtà, a marzo, non era disponibile nessuna posizione di stage e quindi ho iniziato ad inviare CV su LinkedIn, prima ad aziende multinazionali e multibrand (P&G, Unilever, L’Oréal, Calzedonia), poi a società più piccole che ho trovato sul portale stage IULM. Ho ricercato stage inerenti con il mio profilo di studi, in particolare, marketing, comunicazione interna ed esterna. Alla fine ho accettato uno stage curriculare di 150 ore in comunicazione interna per Bricocenter. Devo dire che è stata un’ottima esperienza, nonostante sia durato poco ho imparato tanto sull’azienda e sul suo modo di comunicare. Non ho mai abbandonato l’idea di voler entrare nell’ufficio marketing di Club Med ed ho continuato imperterrita a propormi alle risorse umane con il mio CV aggiornato. Una volta finito lo stage in Bricocenter, sono stata finalmente chiamata per un colloquio che ha avuto esito positivo! Devo dire che l’esperienza in una grossa azienda come Bricocenter ha fatto da ponte per quello che realmente volevo fare, mi ha permesso di entrare in contatto con una realtà complessa e ad oggi mi sento più preparata per affrontare la prossima esperienza di stage   ”.

Quante aziende ti hanno risposto sul totale di richieste inviate? “Su un totale di 30 candidature inviate, quasi tutte hanno risposto sia per esito positivo che negativo, 4 mi hanno contattato per un colloquio”.

Come funziona la procedura per trovare e poi essere assunti in forma “stage”? ”Innanzitutto bisogna ricercare le offerte di stage, personalmente trovo molto utile LinkedIn però ci si può affidare ad altri motori di ricerca come Kijiji, Monster o candidarsi direttamente sul sito aziendale. Una volta passate le selezioni, bisogna rivolgersi all’ufficio stage che si occupa della pratiche per l’assicurazione e il progetto formativo”.

Cosa fare per un colloquio? “Presentarsi ordinati, cercare di mantenere la calma e sorridere. Ascoltare con attenzione le domande dei selezionatori e rispondere spontaneamente”.

Cosa significa essere stagisti? “Lo stage, o volgarmente apprendistato, è sempre esistito. Erano i garzoni nelle botteghe, i giovani che imparavano una professione. Come si può imparare un mestiere se nessuno ce lo mostra? Non da slide o libri, ma in concreto, con i ritmi aziendali che sono completamente diversi da quelli di un’aula universitaria. Essere affiancati da un tutor è un vantaggio, ecco perché valuto lo stage un’esperienza preziosa, che ci fa capire se è quello che vogliamo fare veramente, se siamo portati e se ci piace!  Perché se un lavoro ti piace, lo fai bene e se lo fai bene gli altri lo notano, ti senti apprezzato e così ti motivi a dare il meglio, è un circolo virtuoso. L’altra faccia della medaglia è che oggi la maggior parte aziende non prolungano la collaborazione con lo stagista ma, al contrario, sfruttano questo tipo di contratto per “tappare buchi”, passando da un contratto di stage all’altro, con un  notevole risparmio di costi. Non penso che sia un comportamento corretto, anche se del tutto comprensibile in questo periodo di crisi,, ma con un turnover elevato non si crea il circolo virtuoso che ho citato prima: le persone passando da uno stage all’altro si demotivano perché non hanno la possibilità di crescere, questo nuoce sia allo stagista che all’azienda. Quindi, ben venga uno stage formativo ma bisogna dare una scossa al mercato del lavoro.”

Come vieni considerata in azienda? ”In azienda mi sono sentita accolta ed apprezzata. Mi è stata data molta autonomia anche se ho avuto poco tempo per approfondire alcuni lavori ”.

Quanto conta da 1 a 10 lo stage come inizio del tuo percorso lavorativo? “Direi un 9 abbondante!”

Qual è l’elemento più importante su cui ti valuta un’azienda a primo impatto? ”Le relazioni sono alla base, saper accettare in maniera positiva i complimenti e le critiche è fondamentale per migliorarsi”.

Come si crea, secondo te, un buon cv che  abbia successo? ”Il CV deve essere il più mirato possibile, chiaro e ordinato. É inutile inviare un CV chilometrico se poi non contiene le caratteristiche ricercate dall’azienda. Consiglio di leggere bene l’annuncio e di spulciare nel sito corporate per capire quali sono i valori aziendali. Sicuramente l’onestà paga, aggiornare il curriculum con le reali competenze, ad esempio, io ho totalmente depennato il Tedesco, per quanto abbia passato (poco brillantemente) tutte le verifiche del liceo mentirei se lo aggiungessi tra le mie capacità.”

Condivido pienamente quest’ultima decisione. Io ho fatto il mio colloquio per essere presa in stage in Young & Rubicam con due manager: il primo (nostro lettore e commentatore Carlo D’Innella) mi ha fatto qualche domanda in inglese, ma il secondo, ahimé, era svizzero e quando è passato dal francese al tedesco ho dovuto ammettere che il tedesco scolastico del cv corrispondeva a una non conoscenza di fatto. Da allora anche io l’ho depennato.

 

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PROFESSIONE COPY WRITER. CE NE PARLA MARCO CALAPRICE, SOCIO FONDATORE DI SUNNY MILANO

PC Incontro Marco Calaprice nell’incredibile villa viscontea  che ospita Sunny Milano, l’agenzia che ha aperto insieme ad Antonio Cirenza, con il quale ha creato molte campagne di successo ed è stato direttore creativo di Armando Testa.copy writer

Nel silenziosissimo cortile acciottolato della villa, Milano sembra davvero, come promette il nome dell’agenzia, un soleggiato posto dove lavorare piacevolmente tra un filare di kiwi e un loggiato quattrocentesco.

Sarà il contesto, o saranno gli anni passati da quando lavoravamo insieme su Mulino Bianco in Young & Rubicam (diciassette!) ma Marco, già bravo ad affrontare con flemmatica sopportazione i ritmi folli delle multinazionali, ora mi sembra aver davvero trovato la sua dimensione. Approfitto quindi per chiedergli dei saggi consigli da dare ai giovani talenti che vogliono capire se hanno le caratteristiche per fare il copy writer, mestiere che ha avuto modo di svolgere in molte agenzie, come Lintas, Tbwa, Young & Rubicam e Armando Testa.

Trampolinodilancio: quali caratteristiche deve avere un copy writer? Deve possedere un particolare talento o una specifica attitudine?

Marco Calaprice: Il lavoro di un copywriter si può riassume in due parole: pensiero e scrittura.

La fase del pensiero è strettamente legata alle attitudini e alla forma mentis del singolo.

Un copywriter deve essere, per indole, una persona propensa a stimolare atteggiamenti costruttivi, scambi comunicativi, avere un carattere incline a trovare soluzioni. Senza queste qualità è inutile affrontare questa professione.

Diverso è il discorso sulla scrittura. Al contrario del giornalista e dello scrittore, il copywriter non ha un pubblico, ne ha infiniti.

Può capitare di scrivere titoli indirizzati a giovani manager che cercano una nuova auto e depliant per nonne interessate a diete iposodiche, annunci per rockettari appassionati di strumenti musicali e bodycopy per bambini che amano collezionare le figurine degli animali.

Bisogna lavorare molto su stile e tono e affinare la propria ecletticità.

Cè una particolare formazione che viene considerata indispensabile in fase di selezione di un giovane copy writer?

E’ difficile rispondere a questa domanda perché ogni direttore creativo ha criteri di valutazione personale; c’è chi preferisce un laureato in lettere e chi uno studente che ha frequentato un corso specialistico.

Senza contare che le agenzie hanno esigenze molto differenti una dall’altra. Un conto è cercare un giovane copywriter che lavori su un cliente internazionale che si occupa di abbigliamento, un altro è trovarne uno che scriva i bugiardini dei medicinali. Comunque sia, è importante conoscere lingue straniere e avere un minimo di conoscenza delle tecniche di scrittura.

Quale aggiornamento culturale consigli a chi inizia questo mestiere?

Il digitale sta cambiando la scrittura e la fruizione di essa. Sarebbe un errore snobbare e non studiare i linguaggi che si utilizzano nei blog e nei social media.

C’è qualche suggerimento che vorresti dare a chi vuole intraprendere questa professione?

Fate tanta pratica. Entrare nel mondo del lavoro è difficilissimo quindi ogni occasione, ogni colloquio è una chance da affrontare preparati.

Inventate annunci, riformulate titoli di campagne uscite, scrivete soggetti radio per prodotti inventati o esistenti. Dimostrate ciò che sapete fare e, soprattutto, che davvero lo volete fare.

Cosa apprezzi di più in un colloquio a un futuro copy writer?

Originalità, amore per la scrittura, modestia, entusiasmo, e non necessariamente in quest’ordine.

Ringrazio Marco e prometto di tornare a primavera per una riunione all’aperto (ma magari anche prima, per la raccolta dei kiwi).

 

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“MAX WEBER ERA TEDESCO, MACCHIAVELLI ERA ITALIANO: L´ATTITUDINE TEDESCA AL LAVORO” Intervista a Elisa Pugliese Senior Brand Strategist, Dusseldorf

PC Ho conosciuto Elisa quando, per la sua tesi in Iulm, girava la Cina per capire come le grandi multinazionali stessero adattando le loro strategie di comunicazione a un mercato così diverso. Fra i sui primissimi lavori (forse lei neppure lo ricorda) c’è un documento sulla cultura cinese in rapporto ai consumi che le ho commissionato quando facevo new business in Cina. Mi aveva colpito la sua estrema precisione e determinatezza – che l’hanno portata, dopo uno stage nel reparto ricerche di Young & Rubicam, a lavorare con successo nell’ambito della consulenza prima in Added Value e poi in JWTAdvertising, e ricordavo la sua reale disponibilità a viaggiare.

Elisa Pugliese, Brand Strategist Dusseldorf

Elisa Pugliese, Brand Strategist Dusseldorf

Per questo non mi ha stupito scoprire, grazie al contatto mantenuto con Linkedin, che lavora in Germania e che sta per diventare  “Senior Brand Strategist” in un importante centro media a Dusseldorf, del quale non può ancora rilevarci il nome.

Come ci racconta, dopo aver cambiato due città, cinque case, un fidanzato, due datori di lavoro e esser diventata mamma, è sempre convinta di aver fatto la scelta giusta scommettendo su una crescita professionale oltreconfine.

Recentemente ha scatenato un’interessante discussione sull’Erasmus, sul quale ha un punto di vista piuttosto provocatorio (giovani che pensano solo a sbronzarsi e non si integrano minimamente nel tessuto sociale della nazione che li ospita). Le chiedo quindi di spiegarci perché è così negativa sull’argomento e cosa suggerirebbe come alternativa.

Elisa Pugliese: Alcune premesse utili per contestualizzare le mie opinioni su studio e lavoro.

1)      vivo in Germania dal 2007, dove son stata trasferita dalla multinazionale per cui lavoravo a Milano. In precedenza ho vissuto alcuni anni in Asia e ho girato il mondo in modo decisamente autentico per necessità familiari, di studio o umanitarie;

2)      considero la possibilità di studiare un privilegio assai prezioso e non un obbligo o un´ovvietà;

3)      alla fine di un corso di specializzazione post laurea in Social Management nel 2010 ho trascorso 2 mesi occupandomi del livellamento

dei titoli di studio europei nell´ambito della riforma Bologna dell´istruzione superiore (il cosidetto “3+2”)

Ho recentemente letto che come speranza di soluzione alla crisi giovanile il budget allocato al Progetto Erasmus verrà esteso a 14,5 miliardi di Euro nei prossimi cinque anni (fonte Unione Europea, European Youth – ilfattoquoditiano.it) per consentire a più giovani di trascorrere soggiorni formativi nei vari campus universitari.

I giovani partecipanti al progetto Erasmus che ho conosciuto io negli ultimi anni non mi sembravano affatto propensi a valorizzare le valenze formative di tale progetto bensì a vivere mesi di letterale sballo e promiscuità. Non ricordo nessuno dei miei conoscenti in Erasmus che fosse interessato a capire la cultura locale, a visitare i luoghi significativi, a immergersi nella quotidianità della popolazione. E ovunque la lingua comune era l´inglese, che il programma fosse svolto in Svezia, Germania o altrove. Gli scopi didattici erano considerati secondari rispetto al divertimento.

Secondo me ampliare il numero dei giovani destinatari dei fondi Erasmus non è la soluzione per offrire un percorso formativo di qualità e le risulta

nti opportunità di soluzione della crisi giovanile. Io propenderei per concentrare le risorse sugli studenti più meritevoli e motivati, che abbiano un progetto concreto in cui impegnarsi e di cui render conto al termine del soggiorno (es. un approfondimento tematico, una ricerca scientifica a seconda delle materie), con un docente o un tutor di riferimento in loco e una commissione nell´università di partenza che accerti la validità del percorso formativo.

Il mio trasferimento in Germania nel Novembre del 2007 è nato come esigenza aziendale di knowledge sharing in seguito alla fusione di alcune sedi europee di una multinazionale delle ricerche di mercato e della consulenza. Inizialmente ho mantenuto il contratto di lavoro italiano e ho avuto una trasferta di un anno, poi prolungata a due.

Alla fine del 2009 io sarei tornata in Italia, se la crisi finanziaria e manageriale non avesse compromesso la possibilità di reintegrarmi nella sede milanese. Altisonanti parole come “knowledge sharing”, “talent retention” e “team building” lasciavano il vuoto tra le scrivanie e gli uffici spopolati di mese in mese dai licenziamenti più o meno volontari dei colleghi.

Di fronte allo scenario di un´imminente disoccupazione, ho preferito scommettere sul mio futuro in Germania.

Attualmente – dopo aver cambiato due città, cinque case, un fidanzato, due datori di lavoro e esser diventata mamma – sono davvero convinta di aver fatto la scelta giusta quel freddo e buio dicembre del 2009.

Quali sono i vantaggi di lavorare all’estero rispetto all’Italia?

Il primo vantaggio percepibile del lavorare in Germania – a qualsiasi livello di carriera, sia come capi che come sottoposti – è  l´ottemperanza dei diritti e dei doveri del lavoratore.

Le manifestazioni di questo principio si riscontrano nei comportamenti quotidiani: puntualità e affidabilità nello svolgimento dei compiti, chiarezza nelle aspettative e nel conseguente feedback delle performance da parte dei capi, nella pianificazione della formazione interna (giorni di formazione stabiliti per contratto), nella trasparenza delle note spese, nell´inalienabilità del diritto alle ferie, nella prevedibilità degli orari di lavoro (rarissimamente oltre le 17,30), nella puntualità dei pagamenti ai fornitori (15 giorni), nell´onestà nell´utilizzo delle risorse aziendali (es. non si fanno telefonate private dal telefono aziendale, non si portano a casa penne e gadget, non si caricano file personali sul pc aziendale); non è ovvio che i sottoposti siano incondizionatamente a disposizione del capo e che quest´ultimo si permetta di urlare e inveire contro di loro, come ero solita sentire imbarazzata negli uffici milanesi.

Per me tale attitudine al lavoro ha rappresentato un shock e all´arrivo l´azienda tedesca mi ha fatto frequentare un corso sulla gestione del personale nella realtà locale: ero talmente abituata a essere alla mercé dei miei capi e a rinunciare alla mia vita privata per assecondare i clienti, che ero come paralizzata nell´esprimere le mie esigenze e nel gestire un team di junior così cosciente dei propri diritti da sembrarmi sfrontatamente arrogante.

A livello burocratico il sistema è complesso e applica il motto “tolleranza zero”: nessun lavoro è in nero, ovviamente il lavoro viene retribuito fin da subito (niente stage gratuiti), tutto è registrato, certificato, codificato e archiviato, le leggi non si interpretano bensì si applicano senza eccezioni (nemmeno le eccezioni dettate dal buon senso, purtroppo), la formazione permanente è una realtà promossa sia dalle aziende che dalle istituzioni (camere di commercio, università per adulti, ecc.).

L´equilibrio tra dare-e-avere è garantito a chi si districa nella miriade di moduli, uffici, timbri.

In sintesi: Max Weber era tedesco, Macchiavelli era italiano… e questo si riscontra tuttora 😉

E ora le domande classiche che trampolinodilancio rivolge ai giovani che ce l’hanno fatta. Perché pensi di essere stato scelta al tuo primo colloquio, cosa ha fatto la differenza?

Sinceramente non ricordo il primo colloquio – ne ho fatti troppi per ricordare esattamente il primo.

Credo comunque che a fare la differenza nel caso dei miei primi colloqui di lavoro andati a buon fine siano state:

–      l´intraprendenza, cioè l´aver dimostrato di prendere l´iniziativa nel concretizzare le mie ambizioni, la capacità concreta di ingegnarmi e districarmi in realtà complesse e sconosciute;

–      la capacità di apprendimento in modo fluido e non strutturato, capacità apprezzata in Italia e molto meno in Germania, dove il sapere acquisito ma non certificato è considerato con scetticismo;

–      la disponibilità a dar priorità al lavoro a discapito della mia vita privata e delle mie esigenze personali;

–      l´eccellenza dei risultati ottenuti in ambito scolastico e accademico, nonché la padronanza di quattro lingue e altrettante culture.

Cosa ti è servito di più nel primo anno di lavoro?

La versatilità delle conoscenze (economia, statistica, semiotica, sociologia, organizzazione acquisite alla IULM) mi ha consentito di partecipare alla vita aziendale in più ambiti e di confrontarmi con esperti in varie tematiche.

Grazie a questo eclettismo ho acquisito una dimestichezza interdisciplinare ben rivendibile nel settore della consulenza strategica.

Cosa ti ha insegnato il tuo primo capo?

La mia prima capa in Y&R mi ha impresso come refrain nel cervello:

–      “Al mondo c´è posto per tutti”, che è una frase a cui stentavo a credere in certi momenti di buia incertezza;

–      “Controlla i dati!” procedura noiosa che io tendevo a sottovalutare, dando per scontato che l´elaborazione automatica dei dati avvenisse senza errori;

–      “Fai una cosa alla volta” mentre io in parallelo ascoltavo il suo briefing, controllavo la mail e magari prendevo appunti guardando un reel.

La mia prima capa era l´”anima buona” dell´agenzia, una pseudo-mamma per gli stagisti di turno, e ora si gode la benemerita pensione.

Cosa ti ha insegnato il capo che consideri tuo mentore?

Il capo che considero il mio mentore è Luca Vercelloni, un uomo di un´intelligenza, una versatilità e una capacità di astrazione straordinarie, che mai più ho ritrovato né in Italia né all´estero. Un genio capace di intercettare dinamiche e strutture allo stato nascente, e di esprimerle con un linguaggio acuto, preciso e poetico: mi ha insegnato tutto questo, o almeno mi ha dato questa impronta (non ho la presunzione di esser altrettanto brava ed esperta).

Oltre alla superiorità nei metodi di ricerca e nei contenuti strategici, questa persona aveva instaurato con me un rapporto schietto di confidenza, molto trasparente nel bene (avevo accesso a informazioni riservate) e nel male (parlavamo di lavoro anche di notte, nel weekend e in ferie).

Mi ha anche insegnato l´integerrima correttezza verso i clienti e l´onestà intellettuale, doti decisamente rare.

Mi aveva messo in guardia verso le dinamiche italiche di crescita professionale. Pur apprezzando moltissimo il mio lavoro e presentandolo ai clienti, mi avvertiva metaforicamente “Fino a che non si ha la pancia e i capelli bianchi, non si sembra autorevoli”: sui capelli bianchi potevo soprassedere, sulla pancia assolutamente no… Sono troppo sportiva ed esteta per accettare i rotolini, io sulla pancia ho la tartaruga! (Anche Luca mi conferma di avere a tutt´oggi la pancia piatta – ndr)

Negli anni trascorsi con Luca ho imparato a conoscere i miei limiti di sopportazione, purtroppo a spese della mia salute e della mia vita privata: mentre lui dorme pochissimo, io ho risentito di questi ritmi stravaganti di lavoro e dopo quasi sette anni avevo compromesso il mio equilibrio fisico ed emotivo. Ho imparato molto da lui e ne ho una stima professionale altissima, purtroppo lo stile di vita che mi offriva non sarebbe stato sostenibile come scelta di vita.

Cosa vorresti aver studiato in più o di più nel tuo percorso scolastico?

Avrei voluto studiare di meno… studiavo molto più del necessario, collezionavo esami a ritmi serrati, con una passione per il dettaglio e l´approfondimento che mi riempiva di gioia e soddisfazione.

Per anni non mi sono concessa una settimana bianca né weekend veri e propri, le cosiddette feste studentesche della night life milanese non erano nella mia agenda. Finivo gli esami a luglio e non ne avevo più da dare nella sessione di settembre. Quindi dedicavo l´estate a stage o a esperienze formative e viaggi all´estero.

Mi sono accorta troppo tardi che servono altre doti rispetto alle conoscenze per districarsi nella professione, specialmente in Italia. Bisogna esser simpatici, dedicare tempo a curare le relazioni giuste, plasmare i propri gusti pur di assecondare alcuni interlocutori decisivi. Diciamo che io ero troppo teorica e disciplinata per sfondare, ho dovuto sviluppare a posteriori certe soft skills (e non sono ancora bravissima a risultare simpatica a tutti).

Inoltre, mi trasferirei in Germania già durante l´università perché qui è in molte regioni gratuita (e in alcune si pagano solo 200-500 Euro all´anno): pur avendo beneficiato in IULM di alcune borse di studio, i costi complessivi della vita studentesca in Germania sono limitati, sia per gli alloggi che per il materiale didattico e i trasporti (gratuiti). Vabbeh… col senno di poi siamo tutti più saggi: spero che almeno mia figlia, di nazionalità italo – tedesca, apprezzi il DNA interculturale che il destino le ha offerto.

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“I VALORI DELLO SPORT AIUTANO ANCHE NEL LAVORO.” INTERVISTA A PIETRO ALLIEVI, BUSINESS DEVELOPMENT IN ADIDAS

PC Una chiacchierata con Pietro Allievi è un rifornimento di energia che ricarica per tutto il giorno. Mi faccio raccontare tutte le esperienze che ha fatto prima di entrare nel team

Pietro Allievi Business Development in Adidas

Pietro Allievi Business Development in Adidas

Business Development South Europe in Adidas e faccio fatica a prendere nota: durante i tre anni della laurea di primo livello in Iulm fa uno stage come strategic planner in Young & Rubicam, uno stage in Unicredit,  lavora come assistente al corso IT dello Iulm stesso e fonda la squadra di golf universitaria. Poi decide di non fare il biennio di specializzazione, e per un paio di anni si occupa di marketing e vendite presso un tour operator. Lì capisce che gli manca una formazione più allargata e si iscrive al Master  in “Imprenditorialità e Strategia” della Sda Bocconi, alla fine del quale non è sicuramente difficile ottenere dei colloqui, duranti i quali è però fondamentale dimostrare al meglio le proprie doti.

Trampolinodilancio: Cosa pensi sia stato più utile durante il colloquio che ti ha portato in Adidas?

Pietro Allievi: In quel colloquio, come in quelli che ho fatto parallelamente in L’Oréal e Unilever, davano per scontate – venendo da un Master ritenuto solido – le competenze tecniche. Hanno invece valutato le competenze attitudinali. Sono alla ricerca di una “materia grezza” da poter far crescere in base alle esigenze dell’azienda. Quello che interessa infatti è la forma mentis, soprattutto quando si è alle prime esperienze lavorative, e non serve fingersi diversi da come si è. Tra l’altro se si è se stessi si è a proprio agio durante tutto il colloquio. Capiscono subito se stai recitando una parte. Nel mio caso penso sia stata apprezzata la curiosità e la proattività che ho dimostrato facendo molte domande sull’azienda e sul settore di riferimento. Un’altra cosa che penso sia fondamentale è raccogliere molte informazioni su fatturato, trend, mercato prima del colloquio. Arrivare preparati è anche importante per capire meglio cosa ti dicono e capire com’è realmente l’ambiente. Ricordiamoci che le aziende ci scelgono, ma anche noi dobbiamo avere la consapevolezza se quell’azienda/posizione è quella dove possiamo esprimerci al meglio. Il colloquio è un buon momento per trovare risposta alle proprie domande.

Raccontaci meglio in cosa consiste il tuo lavoro attuale in Adidas

Il team in cui lavoro riporta direttamente all’Amministratore Delegato, siamo come dei consulenti interni su vari aspetti: dalle vendite, al marketing, dallo sviluppo di piani globali a livello locale alla gestione di processi chiave aziendali, primo tra tutti quello del “Go To Market”. Un’opportunità magnifica per imparare a leggere i dati di tutta l’azienda e sapere come interpretare le diverse situazioni, un bagaglio che mi porterò dietro, davvero utile anche in futuro.

Interessante anche il fatto che lavoriamo in ottica di lungo periodo: infatti il progetto principale di cui sono responsabile è il processo di formazione e di implementazione del piano strategico a cinque anni per tutti i 12 mercati che fanno parte dell’area South Europe.

Cosa ti ha insegnato il tuo primo capo?

Il mio primo capo è l’attuale brand manager di Adidas, Alessio Crivelli con il quale ho condiviso fisicamente la scrivania per alcuni mesi e che mi ha insegnato ad approcciare il lavoro come lo sport. Alessio è infatti uno sportivo, ex campione di pallanuoto, che mi ha trasmesso l’onestà, la precisione, la puntualità e la capacità di affrontare con serenità quello che avviene sul lavoro, tutte caratteristiche che uno sportivo deve possedere.

In più ho sempre apprezzato in lui la capacità di premiare chi porta nuove idee (a prescindere se percorribili o meno) e chi ci mette del proprio. Come nella pallanuoto non bisogna stare in disparte, bisogna avere il coraggio di prendere la palla e poi giocare per la squadra, che è un altro insegnamento fondamentale che mi ha trasferito.

Cosa ti ha insegnato il capo che consideri tuo mentore?

Ci sono molte persone che mi hanno fatto crescere e dalle quali ho imparato cose diverse, ma tutte molto utili: da Massimo Carnelli la tranquillità di ragionamento e la capacità di approfondire; da Simone Santini (mio attuale responsabile) la proattività che ti porta a “fare le cose” e non a lasciare le idee su una bella presentazione.

Da Jean Michel Granier, amministratore Delegato di Adidas South Europe e mio mentore durante il training programme quando sono entrato in Adidas, come avere una visione a 360° di tutta l’azienda e anche dei mondi che si collegano all’azienda, senza perdere però l’attenzione al dettaglio. È come quando in una partita di biliardo devi sempre avere in mente il colpo successivo. Quindi devi fare il colpo e farlo bene, con efficacia e precisione, ma senza perdere d’occhio l’intera partita.

In più mi ha insegnato il valore dell’umiltà, che è fondamentale per muoversi all’interno di un’organizzazione.

C’è infine qualcosa che vorresti aver studiato in più o di più nel tuo percorso scolastico?

Soprattutto nella laurea triennale mancano dei corsi sulle soft skill, che spieghino quali sono gli atteggiamenti più corretti nelle diverse situazioni, a partire dalle cose più semplici. Ci sono ragazzi che non sanno come rivolgersi alle persone, che hanno paura di esporsi.

In più ai giovanissimi consiglio di cercare di restare in contatto con le persone che ti possono insegnare qualcosa, come ho fatto a partire da Marco Lombardi, mio professore in Iulm e capo in Young & Rubicam. Un consiglio o un confronto con persone di cui si ha stima, come ho di Marco, ti apre la mente e risulta sempre utile tanto nella vita quanto nelle decisioni importanti che bisogna prendere. Capire e farsi aiutare dall’esperienza delle altre persone da un valore aggiunto impagabile.

Contatto LinkedIn: it.linkedin.com/in/pietroallievi

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COME VESTIRSI D’ESTATE PER UNA RIUNIONE

PC La scorsa settimana ci ha regalato il primo giorno di caldo estivo e a Milano sono apparse le prime tenute da spiaggia (come ogni anno mi chiedo cosa faranno quelli che in Aprile mettono short e canottiera nella canicola di Luglio e Agosto).infradito in ufficio

Lo stesso giorno Bruno Ferrari, il guru fondatore dell’agenzia con la quale collaboro,  ci ha invitato a trasferirci  nel bellissimo giardino dell’agenzia per la prima riunione dell’anno en plein air. Guardando come stava bene senza cravatta, giacca o maglione e con la camicia slacciata, unica concessione che un uomo in un ambiente non formale può fare al caldo, mi è venuto da pensare che gli uomini tutto sommato rischiano meno di sbagliare rispetto alle donne, in fatto di abbigliamento estivo.

Ricordo infatti di aver avuto una discussione con la mia ex socia che sosteneva che in estate si può andare dal cliente con le infradito, purché eleganti (e ahimé lo faceva davvero). Io credo invece che il rispetto per i colleghi e in particolare per il cliente – se siete nella posizione di comunicatori con un committente – imponga certe regole di bon ton, ma soprattutto di buon senso.

Innanzitutto no alle trasparenze: vestitini, anche eleganti, che permettono una radiografia quando entrate in sala riunione mineranno la vostra credibilità. Infradito che sciabattono mentre accompagnate nei corridoi il cliente e striminzite canottiere senza una giacchina o un maglioncino distoglieranno l’attenzione da quanto volete dire (e in più è probabile che con l’aria condizionata vi prendiate anche un raffreddore).

Una ricerca di infojobs, la più importante società europea di recruiting online,  su cosa dà fastidio ai colleghi in ufficio mi  conforta  confermando che il 74% degli intervistati detesta le infradito, come anche bermuda, barba incolta e tatuaggi ostentati.

Ne esce un quadro piuttosto formale dove solo il 7% pensa che ognuno possa essere libero di indossare quello che preferisce, mentre l’87% ritiene che esistono regole di buon costume che vanno osservate sempre. A maggiore ragione se quel giorno dobbiamo partecipare a una riunione importante o se dobbiamo incontrare un cliente, visto che è un po’ come essere ospiti a casa d’altri e il galateo ricorda che la padrona di casa non deve mai essere la più elegante.

So che tanti nostri lettori sono inseriti nei reparti marketing e hanno a che fare con molte agenzie. Mi piacerebbe avere il loro parere, e scoprire se sono anni di “scuola Young & Rubicam” a rendermi troppo formale.

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