Archivio mensile:aprile 2013

A proposito di stile e di estate

PB Avrei voluto fare un commento al post di Paola. Ma non resisto a prendermi un po’ più di spazio.
Il sig Armani ritiene che in estate non sia possibile muoversi senza un golfino di cachemire. Non occupa spazio (certe pashmine si tengono in un pugno), è confortevole e protegge da tutti i capricci della temperatura (aria condizionata, venticello in terrazza, brezza marina).

E anche quando gli inconvenienti del clima purtroppo trascendono party in barca e viaggi intercontinentali, ma si concentrano su trasbordi in metropolitana, riunioni con il cliente, convivenza con colleghi allergici alla doccia o che regolano l’aria condizionata a simulare il circolo polare artico, le regole di base non cambiano.

D’estate bisogna vestirsi a cipolla, essere (e sembrare) freschi e puliti.
Confermo che va bandita la tenuta da spiaggia con reggiseno a vista e pelle traslucida.
Il trucco va mantenuto leggero perché l’effetto Moira degli elefanti (o Cleopatra come era chiamata una celebre commessa della Rinascente, reparto lingerie) con matita che cola a mezzogiorno è inqualificabile.

Tutti quei magnifici tessuti stretch che ci fasciano come sirene durante l’inverno, vanno banditi d’estate: gli elastomeri sono pesanti e sintetici. Meglio i tessuti naturali. E se si amano le forme che seguono il corpo, senza strizzarlo in estate, scegliere capi in costina. A mio avviso la costina nel pullover da donna è confortevole come la maglia rasata ma ti rende molto più bella. Per i colori: preferire quelli chiari, luminosi, freschi.

Il nostro abbigliamento da lavoro deve ispirare ordine, stile, affidabilità.

Avete mai notato in riunione quelli che si vestono come le coriste del Festivalbar? Con tutto quel nero, quel lucido, quel tacco?

E sul lavoro certi eccessi di stravaganza vanno banditi: zeppe che paiono coturni, orecchini grandi come salvagente, corpetti da tigre del materasso saranno perfetti dopo le 21.

Perché bisogna ammetterlo: esistono brutti vestiti che non bisogna mettere MAI, ma esistono anche bei vestiti che non bisogna mettere nel posto sbagliato.

Il magnifico prendisole in ufficio diventa un orrore. E il tailleur pantalone in spiaggia lo mettono solo i camerieri.

Quindi d’estate in ufficio, se vedete allo specchio troppa pelle vuol dire che avete sbagliato: copritevi. La gambetta pelosa di quello dei sistemi informativi in bermuda tra PC e scrivania non si può guardare.

Per le donne occhio ai volumi: se siete senza maniche, no scollature, no minigonne.

Ma vi abbiamo mai parlato della efficacia di una certa camicia bianca? In voile, garza, popeline, piquet, jersey… ne esistono fantastiche versioni anche per l’estate!

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COME VESTIRSI D’ESTATE PER UNA RIUNIONE

PC La scorsa settimana ci ha regalato il primo giorno di caldo estivo e a Milano sono apparse le prime tenute da spiaggia (come ogni anno mi chiedo cosa faranno quelli che in Aprile mettono short e canottiera nella canicola di Luglio e Agosto).infradito in ufficio

Lo stesso giorno Bruno Ferrari, il guru fondatore dell’agenzia con la quale collaboro,  ci ha invitato a trasferirci  nel bellissimo giardino dell’agenzia per la prima riunione dell’anno en plein air. Guardando come stava bene senza cravatta, giacca o maglione e con la camicia slacciata, unica concessione che un uomo in un ambiente non formale può fare al caldo, mi è venuto da pensare che gli uomini tutto sommato rischiano meno di sbagliare rispetto alle donne, in fatto di abbigliamento estivo.

Ricordo infatti di aver avuto una discussione con la mia ex socia che sosteneva che in estate si può andare dal cliente con le infradito, purché eleganti (e ahimé lo faceva davvero). Io credo invece che il rispetto per i colleghi e in particolare per il cliente – se siete nella posizione di comunicatori con un committente – imponga certe regole di bon ton, ma soprattutto di buon senso.

Innanzitutto no alle trasparenze: vestitini, anche eleganti, che permettono una radiografia quando entrate in sala riunione mineranno la vostra credibilità. Infradito che sciabattono mentre accompagnate nei corridoi il cliente e striminzite canottiere senza una giacchina o un maglioncino distoglieranno l’attenzione da quanto volete dire (e in più è probabile che con l’aria condizionata vi prendiate anche un raffreddore).

Una ricerca di infojobs, la più importante società europea di recruiting online,  su cosa dà fastidio ai colleghi in ufficio mi  conforta  confermando che il 74% degli intervistati detesta le infradito, come anche bermuda, barba incolta e tatuaggi ostentati.

Ne esce un quadro piuttosto formale dove solo il 7% pensa che ognuno possa essere libero di indossare quello che preferisce, mentre l’87% ritiene che esistono regole di buon costume che vanno osservate sempre. A maggiore ragione se quel giorno dobbiamo partecipare a una riunione importante o se dobbiamo incontrare un cliente, visto che è un po’ come essere ospiti a casa d’altri e il galateo ricorda che la padrona di casa non deve mai essere la più elegante.

So che tanti nostri lettori sono inseriti nei reparti marketing e hanno a che fare con molte agenzie. Mi piacerebbe avere il loro parere, e scoprire se sono anni di “scuola Young & Rubicam” a rendermi troppo formale.

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Mamma che paura!

PB   L’altra settimana Paola era alla ricerca , per una azienda importante di largo consumo, di un candidato per uno stage all’estero.

Contattati tre o quattro validi talenti tra i ragazzotti che ci capitano tra le mani (un po’ come Raffa a “The Voice”), in alcuni casi un sano terrore (Estero?! Mi sono appena fidanzata!) ha pervaso le risposte.

Avere paura è normale: io ho avuto un sacco di volte paura. Semplicemente dobbiamo sopportarla, esorcizzarla, camuffarla e soprattutto non rinunciare mai a fare qualcosa per colpa della paura.

La cosa più difficile che abbia mai fatto nella mia vita è stata prendere la patente (più dell’esame di latino con Cavaioni con traduzione di Tacito a vista).

Come si usava negli anni ’80, un affabile papà (con bava alla bocca e ghigno sardonico) mi urlava di schiacciare l’acceleratore (io effettivamente ero dinamica come un bradipo) anziché svernare all’uscita di un incrocio o nel parcheggio della Metro.

Quando lo ho poi schiacciato (troppo, evidentemente) mi sono schiantata contro un marciapiede (curva a destra) disintegrando due gomme (mio papà aveva la jeep Campagnola).

Quando ho avuto più paura di mio padre che della macchina (la questione delle gomme aveva reso meno gradevoli le lezioni) ho finalmente ottenuto la patente. Ho fatto l’esame con una 126 bianca e in riserva (si chiamava UGO, la 126) ed era il 1984, l’anno del nevone. Ho avuto più paura di rimanere senza benzina nel mezzo dell’esame che della neve (che in ogni modo è entrata, quell’anno, nella storia della protezione civile di Milano e per sempre nei miei incubi).

Ora ho la patente e non amo guidare (superare è rimasta per me una procedura piuttosto impegnativa, odio la Tangenziale, benedico la marcia automatica, non riconosco la mia automobile se non dal colore) ma faccio 40.000 km all’anno per andare a lavorare. E non potrei scrivere questo blog (cioè avere accumulato l’esperienza per scriverlo) se non avessi preso la patente (Dolce&Gabbana tra Milano a Legnano, Armani tra Como e Milano, Chantelle in via dei Missaglia, Tacchini a Novara).

Un’altra cosa di cui ho sempre avuto timore è passare pranzi e cene al ristorante da sola o con persone che non sono miei amici (per me la “cena di lavoro” è peggio della ceretta). Ma dopo aver mangiato camambert e baguette  in albergo da sola per troppe volte, ho deciso che era meglio vincere quel momento atroce in cui il cameriere ti chiede se sei sola (si, vabbé e allora?) e ti fa attraversare tutta la sala per posizionarti nel tavolino in fondo, ma poi mangiare l’anatra all’arancia in compagnia di un buon libro.

Paura di volare (che brutti i primi dieci minuti in cui si tappano le orecchie!), paura del traghetto (io sto seduta sui cassoni dei salvagente anche se vado all’Elba, e ben prima del naufragio Costa Concordia) , paura della moto (e se mi addormento mentre Erri curva?), paura del freddo (quando le dita della mano destra perdono sensibilità), paura della seggiovia (la odio, la odio: e se scivolo priva di sensi mentre è a 300 metri di altezza?), paura di sorpassare (a volte dietro una bisarca posso passare dei quarti d’ora a pianificare il momento buono per mettere la freccia), paura del dolore (no, non lo reggo), paura dei farmaci contro il dolore (e se mi viene uno shock anafilattico?), paura della solitudine (mai in una casa isolata, piuttosto vivere in un sottoscala affollato), paura della folla (durante i concerti a San Siro quando tutti vogliono il bis io voglio uscire e Erri vuole divorziare), paura di nuotare dove non tocco (se mi viene una congestione?), paura di tuffarmi dove tocco (se mi rompo l’osso del collo?)

In questa mia vita sprezzante del pericolo, ringrazio tutti quelli che mi hanno obbligato a fare qualcosa di cui avevo paura. Ringrazio anche l’imbarazzo , peggiore della paura, di ammettere che avevo paura.

Rendo noto per altro che sopravvivo allegramente (piena di amuleti, esorcismi, trucchi, superstizioni, riti magici e paure) e guido tutti i giorni, nuoto tutti i sabati, scio tutti gli inverni, volo tutti i mesi, prendo il traghetto d’estate, vivo in una casa poco isolata e poco affollata, quando ho il mal di testa prendo l’Aulin e al mare nuoto dove non tocco, ma parallelamente alla costa.

Che bello vincere la paura!

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Il successo passa dal lungo o dal breve?

PB  L’ultimo inserto del Corriere della Sera ( il Sette che ha ispirato il post di Paola sul “fattore S”) è una miniera di preziose gemme. Una fra tutte la famosa citazione di Arbasino a proposito del fatto che in Italia “c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di brillante promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerabile maestro”.

E a proposito di maestri, mi viene in mente uno degli insegnamenti che più mi sono stati utili , impartitomi dall’allora mio capo in Armani, Ing Fantò.

Lottavamo con passione per il successo di EA7, la linea di abbigliamento dedicato alla sport all’interno dell’offerta Armani. Ma proprio allo sport attivo (roba per andare a sciare o per fare le regate, non per passeggiare in Corso Vittorio Emanuele con look Sankt Moritz o Porto Cervo).

Si combatteva contro fattori di criticità esterna (chi avrebbe mai messo una giacca a vento di Armani per andare a sciare?) e fattori critici di credibilità interna (eravamo parte di una Business Unit nata una quarantina di anni prima per fare preziose cravatte di seta e sciarpe fil coupé: come potevamo essere quelli a cui affidare una linea di abbigliamento tecnico?)

Mentre costruivamo un ufficio prodotto, una rete commerciale, una distribuzione, una filosofia nuova, il mio capo mi faceva pressione su dettagli apparentemente poco importanti, su progetti paralleli a breve termine.

A me pareva di sacrificare energie preziose (di tempo, attenzione, risorse) a scapito del “grande progetto”. Era dunque importante solo per me? O più per me che per lui?

Fu a quel punto che Fantò mi spiegò quanto fosse determinante, per avere la fiducia su un progetto a lungo termine, dare prove di capacità, pillole di successo, anche su progetti temporalmente più vicini, più verificabili sul breve.

Le atmosfere, gli umori in azienda sono mutevoli. Soprattutto in un mondo, quello della moda, dove i manager possono cambiare con il ritmo delle cartelle colore. La delega per agire non ha garanzia di anni (anche per progetti che dovono durare anni e che rispettano il timing!) e la fiducia va mantenuta calda da tappe di avvicinamento che tatticamente servono a confortare la decisione presa.

E’ opportuno creare piccoli Show case di successo per avere la libertà intellettuale e il tempo necessario per agire profondamente su progetti a più ampio respiro.

Rifare completamente il catalogo della linea di Intimo (un progetto grafico a limitato impatto strategico) permise di avere un immediato impatto di comunicazione su chi lavorava alle collezioni: l’approccio parve subito nuovo, dinamico. I prodotti ebbero il tempo di essere rinnovati in un processo di almeno quattro stagioni (dallo stile, al piano taglie, alla commercializzazione), ma gli strumenti di vendita subito rinnovati diedero credibilità alla promessa. David Beckham in slip affisso sui muri della città, oltre a dare il buon umore a chi prendeva il tram ogni mattina per andare a lavorare, ha contribuito incosapevolmente alla realizzazione delle giacche a vento.

A chi comincia una carriera consiglio di lavorare sempre a grandi progetti (la visione strategica è parte del talento di chi lavora nel marketing), senza dimenticare però che i piccoli obiettivi a corollario (non necessariamente connessi) sono uno strumento per raggiungerli e non una dispersione di energie.

Guardare solo al lungo termine è spesso deleterio per mantenere la fiducia di chi ci ha affidato una missione e di chi ci deve seguire sul campo: la riuscita di un progetto (anche piccolo) è la più efficace delle motivazioni.

A me è capitato di mettere al centro della riuscita di una collezione il rispetto del timing perché sapevo che per la prima stagione era l’unico obiettivo che avremmo potuto raggiungere: ma non potevo permettermi una frustrazione di 12 mesi, prima dei quali non avremmo raggiunto obiettivi più importanti.

Sicuramente il mio capo era una brillante promessa (queste cose me le insegnava da Direttore Generale  e non aveva compiuto ancora quarant’anni) , posso dire di avere pensato ogni tanto di lui che fosse uno stronzo (chi non lo ha pensato del proprio capo almeno una volta?) ma certo è stato un maestro (sul “venerabile”  per il momento soprassiedo, lascio l’esclusiva a Arbasino e aspetto almeno che a Fantò vengano i capelli bianchi)

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I 15 modi per avere successo, senza usare il Fattore S

PC Il settimanale Sette di questa settimana commenta in copertina il preoccupante aumento di chi usa il Fattore S per avere successo, dove S sta per l’iniziale dell’epiteto che ben descrive chi ottiene dei risultati ignorando le esigenze altrui. In sintesi uno “S” – sostiene Aaron James nel suo trattato Stronzi, edito da Rizzoli – è qualcuno che come riassume D’Orrico: ” 1) si arroga sistematicamente privilegi che non gli competono; 2) agisce sulla base di un radicato senso di superiorità; 3) tale senso di superiorità lo rende del tutto immune alle lamentele.”stronzi

Per quanto io desideri il successo con la mia nuova vita professionale, questa strada per l’affermazione personale è troppo lontana dai miei principi e dalla mia indole. Ma avendo comunque deciso di impegnarmi a raggiungerlo ho cercato una guida alternativa. Ho trovato utile quest’articolo di Ilya Pozin, editorialista per Linkedin e Forbes, apparso in questi giorni su Linkedin Today e che vi sintetizzo.

Interessante (e consolante) il punto di vista di Pozin, che ritiene che il successo non possa che nascere dall’avere superato degli ostacoli e dall’essere quindi avezzi all’insuccesso. Infatti al primo posto tra i quindici comportamenti tipici di chi ha successo il primo è proprio:

1. Fallire. Può succedere, l’importante è non ignorare il fallimento, ma imparare dagli errori in modo da non compierli la volta successiva (sembra una banalità ma se ripenso ai principali errori della mia vita mi rendo conto che sono seriali, e voi?)

2. Stabilire degli obiettivi. Piccoli obiettivi tangibili che si possano raggiungere ogni giorno. Ad esempio riallacciare i rapporti con persone che potrebbero aiutarvi a trovare un lavoro, migliorare la conoscenza di una lingua che potrebbe esservi utile, …

3. Non affidarsi alla fortuna. Certo a volte succede di essere al posto giusto nel momento giusto, ma sono più le volte che dovete con tenacia, fatica e impegno guadagnarvi quello che meritate.

4. Controllare i vostri progressi. Monitorate l’efficacia dei comportamenti, strategie e tattiche, e poi decidete se c’è qualcosa che dovete modificare.

5. Agire.  Non restate mai in posizione di stallo, le persone di successo non restano ferme dopo un insuccesso, ma sono già impegnate a raggiungere un nuovo obiettivo.

6. Guardare al disegno nel suo insieme. E’ tipico di chi ha successo avere una visione ampia e saper inserire anche i piccoli dettagli in un insieme più ampio.

7. Mostrare un realistico ottimismo. Chi ha successo è il primo a credere nelle proprie abilità. Fate una lista delle vostre capacità, cercate se possibile di migliorarle, e cercate di capire quali risultati potete ottenere grazie alle vostre qualità.

8. Migliorarsi continuamente. Imparate dagli insuccessi, imparate a conoscere le vostre debolezze e cercate dei modi per fare meglio la volta successiva: in particolare migliorate la vostra capacità di fare rete.

9. Impegnarsi. Il successo arriva solo come risultato di impegno e duro lavoro.

10. Essere attenti. Se non siete aperti a cogliere anche i segnali deboli che vengono dall’ambiente difficilmente potrete cogliere le migliori opportunità: siate sempre al corrente di quanto si dice all’interno dell’azienda dove siete, tenete conto dei feedback dei clienti, tenetevi aggiornati sulle evoluzioni del settore nel quale volete inserirvi. Quanti giovani che vogliono lavorare nell’ambito della comunicazione o del marketing si abbonano alle newsletter gratuite che riassumono cosa succede nel mercato?

11. Perseverare. Le persone di successo non mollano mai

12. Comunicare con fiducia. Chi ha successo ha facilità nel convincere gli altri. Illuminante a riguardo il film sul Giovane Hitler che ho appena visto: ovviamente Hitler è anche un rappresentante della categoria “S”, della quale detiene sicuramente il primato, ma è spaventoso vedere cosa si può ottenere con una buona capacità oratoria. Ovviamente se non volete rientrare nella categoria “S” userete la comunicazione per convincere, e non per manipolare.

13. Mostrare umiltà. Le persone di successo riconoscono le loro responsabilità quando commettono un errore.

14. Essere flessibili. I piani possono cambiare, le persone di successo invece che essere frustrate dal cambiamento sanno assecondarlo.

15. Creare una rete. Chi ha successo riconosce che  i propri risultati derivano anche dall’aiuto degli altri. Non potete ottenere il successo da soli. Investite nella creazione di una rete di connessioni lavorative che vi saranno sicuramente utili.

Se con tutte queste indicazioni riusciamo a ottenere quello che desideriamo senza per questo calpestare gli altri penso che avremo già ottenuto un grande successo.

 

 

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Enzo Jannacci, Milano e noi

PB  La morte di Jannacci ha colpito tutti i miei amici.

Nelle e mail di questi giorni, nelle conversazioni, nell’attenzione ai suoi funerali in S Ambrogio, in tanti hanno deglutito con dolore per un lutto che ci ha toccato intimamente, anche se nessuno di noi lo aveva conosciuto al di là delle sue canzoni.

A  proposito di milanesità, dignità, operosità, attenzione agli ultimi e poesia Jannacci ha avuto parecchio da dire. Un giullare che era anche medico. Un artista che amava i marciapiedi più della ribalta.

Io compro spesso la rivista “Scarp del tenis” (i redattori sono proprio i barbun che vivono per strada: la avete mai letta?) che mi fa ritornare con i piedi per terra ogniqualvolta penso che la vita sia intollerabile perché non ho il telepass e mi tocca infilare il bancomat alla barriera dell’autostrada.

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