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Mamma che paura!

PB   L’altra settimana Paola era alla ricerca , per una azienda importante di largo consumo, di un candidato per uno stage all’estero.

Contattati tre o quattro validi talenti tra i ragazzotti che ci capitano tra le mani (un po’ come Raffa a “The Voice”), in alcuni casi un sano terrore (Estero?! Mi sono appena fidanzata!) ha pervaso le risposte.

Avere paura è normale: io ho avuto un sacco di volte paura. Semplicemente dobbiamo sopportarla, esorcizzarla, camuffarla e soprattutto non rinunciare mai a fare qualcosa per colpa della paura.

La cosa più difficile che abbia mai fatto nella mia vita è stata prendere la patente (più dell’esame di latino con Cavaioni con traduzione di Tacito a vista).

Come si usava negli anni ’80, un affabile papà (con bava alla bocca e ghigno sardonico) mi urlava di schiacciare l’acceleratore (io effettivamente ero dinamica come un bradipo) anziché svernare all’uscita di un incrocio o nel parcheggio della Metro.

Quando lo ho poi schiacciato (troppo, evidentemente) mi sono schiantata contro un marciapiede (curva a destra) disintegrando due gomme (mio papà aveva la jeep Campagnola).

Quando ho avuto più paura di mio padre che della macchina (la questione delle gomme aveva reso meno gradevoli le lezioni) ho finalmente ottenuto la patente. Ho fatto l’esame con una 126 bianca e in riserva (si chiamava UGO, la 126) ed era il 1984, l’anno del nevone. Ho avuto più paura di rimanere senza benzina nel mezzo dell’esame che della neve (che in ogni modo è entrata, quell’anno, nella storia della protezione civile di Milano e per sempre nei miei incubi).

Ora ho la patente e non amo guidare (superare è rimasta per me una procedura piuttosto impegnativa, odio la Tangenziale, benedico la marcia automatica, non riconosco la mia automobile se non dal colore) ma faccio 40.000 km all’anno per andare a lavorare. E non potrei scrivere questo blog (cioè avere accumulato l’esperienza per scriverlo) se non avessi preso la patente (Dolce&Gabbana tra Milano a Legnano, Armani tra Como e Milano, Chantelle in via dei Missaglia, Tacchini a Novara).

Un’altra cosa di cui ho sempre avuto timore è passare pranzi e cene al ristorante da sola o con persone che non sono miei amici (per me la “cena di lavoro” è peggio della ceretta). Ma dopo aver mangiato camambert e baguette  in albergo da sola per troppe volte, ho deciso che era meglio vincere quel momento atroce in cui il cameriere ti chiede se sei sola (si, vabbé e allora?) e ti fa attraversare tutta la sala per posizionarti nel tavolino in fondo, ma poi mangiare l’anatra all’arancia in compagnia di un buon libro.

Paura di volare (che brutti i primi dieci minuti in cui si tappano le orecchie!), paura del traghetto (io sto seduta sui cassoni dei salvagente anche se vado all’Elba, e ben prima del naufragio Costa Concordia) , paura della moto (e se mi addormento mentre Erri curva?), paura del freddo (quando le dita della mano destra perdono sensibilità), paura della seggiovia (la odio, la odio: e se scivolo priva di sensi mentre è a 300 metri di altezza?), paura di sorpassare (a volte dietro una bisarca posso passare dei quarti d’ora a pianificare il momento buono per mettere la freccia), paura del dolore (no, non lo reggo), paura dei farmaci contro il dolore (e se mi viene uno shock anafilattico?), paura della solitudine (mai in una casa isolata, piuttosto vivere in un sottoscala affollato), paura della folla (durante i concerti a San Siro quando tutti vogliono il bis io voglio uscire e Erri vuole divorziare), paura di nuotare dove non tocco (se mi viene una congestione?), paura di tuffarmi dove tocco (se mi rompo l’osso del collo?)

In questa mia vita sprezzante del pericolo, ringrazio tutti quelli che mi hanno obbligato a fare qualcosa di cui avevo paura. Ringrazio anche l’imbarazzo , peggiore della paura, di ammettere che avevo paura.

Rendo noto per altro che sopravvivo allegramente (piena di amuleti, esorcismi, trucchi, superstizioni, riti magici e paure) e guido tutti i giorni, nuoto tutti i sabati, scio tutti gli inverni, volo tutti i mesi, prendo il traghetto d’estate, vivo in una casa poco isolata e poco affollata, quando ho il mal di testa prendo l’Aulin e al mare nuoto dove non tocco, ma parallelamente alla costa.

Che bello vincere la paura!

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Quale canzone descrive meglio la tua etica nel lavoro?

PC Per quanto strana possa sembrare questa domanda, viene davvero posta durante i colloqui di lavoro per entrare in Dell, la nota azienda di computer. Il consiglio del sito glassdoor.com, che ha raccolto le domande più bizzarre poste dai selezionatori durante i colloqui, è di prendere tempo per formulare una risposta creativa e possibilmente intelligente. O ancora meglio prepararsi in anticipo.9eef163dae0162918c1bd59c11d0ae46

Patrizia e io abbiamo voluto essere pronte a questa evenienza e abbiamo provato a pensare a cosa risponderemmo.

Nella rubrica di D’Orrico su Sette, che un paio di settimane fa commentava la notizia, ho trovato due suggerimenti altrettanto interessanti (molto Baby boomers, quindi i giovani Millenials sono pregati di non copiare e formulare una risposta più originale e contemporanea).

La prima canzone è My Way di Frank Sinatra, che rivendica “di avere amato, riso, pianto e vissuto sempre alla mia maniera”, un modo di vivere che D’Orrico definisce la migliore etica che si possa seguire. Chissà se la risposta piacerebbe a un selezionatore o non darebbe l’impressione di non essere disposti ad adattarsi a nuove regole e a nuovi contesti.

La seconda si adatta di più a una persona che, come me, ha fatto scelte diverse nel corso di un lungo percorso lavorativo (nel mio caso la più trasgressiva è stata sicuramente quella di fare principalmente la mamma per tre anni, quando non era affatto di moda e nessuno parlava di Home working): è Non, je ne regrette rien di Edith Piaf (No, non rimpiango niente). Anche se D’Orrico dubita che possa piacere a un manager americano, ho deciso che sarebbe questa la mia risposta. Le decisioni che ho preso durante la mia carriera sono sempre state, infatti, guidate dal desiderio di essere fedele alla mia etica personale. Sono state tutte prese in buona fede e con entusiasmo, senza scendere a compromessi, e quindi non mi pento di nessuna di esse.

Patrizia invece ha scelto Ti lascio una canzone di Gino Paoli. Mi spiega che è perché “e’ bella e malinconica, ma rappresenta fasi della vita (carriera) che si susseguono, passate certo, ma solo dopo avere lasciato la loro traccia positiva, di esperienza e competenza, necessaria per i nuovi passi. Impossibile salire una scala se non si abbandona un gradino per salirne un altro.

Tutto deve svolgersi, maturare e finire, per dare nuovi stimoli e nuovi frutti inediti. Io nella storia sono quella che se ne va con la canzone, che prosegue la sua strada. Credo che da ogni lavoro mi sono portata via una canzone che ho usato e cantato quando ho avuto fame.

Il mio anno parigino, quando ero studente, ancora canta per me. E così l’esperienza del teatro, che ha segnato il mio amore per il palcoscenico (e il fashion show). I reggiseni di Chantelle sono ancora oggi il prodotto che conosco meglio tecnicamente, in Dolce&Gabbana ho imparato la moda, in Armani i mercati esteri, in Tacchini la gestione delle licenze e il mondo delle sponsorizzazioni sportive. Le canzoni che ho imparato mi sono servite sempre a fare nuove canzoni per andare oltre. Anche questo blog è una nuova canzone, che sarebbe stata impossibile senza le altre!”

La canzone di Patrizia è piena di note che vengono dall’esperienza di tanti anni di lavoro.

Più adatta a un giovane che vuole apparire dinamico e focalizzato sull’obiettivo è sicuramente quella suggerita in un articolo di Grazia: Born tu run di Bruce Springsteen. Intelligente la scelta  di una giovane communication manager intervistata da Glassroom, che spiega che la sua canzone è Under Pression dei Queen, perchè lavora molto bene sotto pressione.

In un articolo di Business Week  un esperto del settore suggerisce comunque di usare sempre molta ironia nella risposta. Se per esempio la propria scelta è Harder, Better, Faster, Stronger (canzone che sinceramente non conoscevo), è ovvio che si vuole sottolinare  forza di volontà e  perfezionismo, ma quello che vuole davvero scoprire chi pone questa domanda è se siete creativi e amate mettervi in gioco, per cui conterà molto il tono divertito e autoironico con cui spiegate qual è la vostra canzone.

E voi? Avete già preparato la risposta: qual è la canzone che meglio esprime la vostra etica sul lavoro?

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La manutenzione: dai muscoli, passando per gli affetti, finendo nelle relazioni professionali

PB  Da qualche tempo in ufficio, abbiamo deciso che a pranzo si va in trattoria (il bar ci ha stufato) e soprattutto che ci si va a piedi. 20 minuti per andare. 20 minuti per tornare.

Esigenza partita dal desiderio di sgranchirsi le articolazioni stanche di troppa scrivania e di rientrare nella taglia di campionario dopo le intemperanze natalizie.

Gli effetti collaterali sono stati un approfondimento delle relazioni (40 minuti a piedi tutti i giorni ti fanno scoprire che la fidanzata dello stilista si occupa di food design, che la responsabile della comunicazione fa nordic walking, che il direttore amministrativo ha il sogno segreto di aprire un vivaio).

Così, tra ginnastica e conversazione, abbiamo fatto alcune riflessioni sul concetto di manutenzione.

Manutenzione degli oggetti (come lavare a mano il proprio pullover preferito o riparare in garage una Ducati Scrambler) o degli affetti (come avvisare se si arriva tardi, chiedere scusa se serve, fare una telefonata o un sorriso al di là dal superminimo a chi si ama).

Il principio è lo stesso per le proprie relazioni e le proprie competenze professionali

La manutenzione delle relazioni professionali

Non perdiamo di vista i professori che abbiamo stimato o i professionisti che ci hanno aiutato: teniamoli informati dei nostri progressi, teniamoci informati delle loro pubblicazioni e della loro carriera (per me il prof Bosisio dell’università, la Colavito di Manager Italia).

Teniamo d’occhio i colleghi o i collaboratori con i quali abbiamo costruito progetti, raggiunto risultati, che ci hanno insegnato un lavoro (per me la Marabini del commerciale di Armani, la Cicero dell’ufficio stile, la Carpaneto che è già comparsa sul Blog, l’infaticabile Simoni, la Robi Milan che mi ha iniziato alle pv…)

Sentiamo i capi che abbiamo stimato, che ci hanno stimato (per me la rossa  Ghisla in Chantelle, l’anglosassone Crespi in Dolce&Gabbana, il mitico Ing. Fantò in Armani)

Teniamo i contatti dei fornitori migliori, delle agenzie più interessanti, della aziende più vivaci con le quali siamo entrati in contatto.

La manutenzione delle competenze

Se abbiamo un talento o la sorte ci porta a dedicarci a un argomento che riteniamo di buon potenziale e che sentiamo nelle nostre corde, non accontentiamoci della sufficienza. Diventare un esperto, un punto di riferimento per un settore specifico, può diventare una carta preziosa da giocare per essere preferiti ad altri candidati nel momento del confronto. Quindi teniamoci aggiornati e allenati, facciamo manutenzione delle nostre competenze (linguistiche, tecniche o relazionali che siano).

Paola, la mia co blogger, sa bene che (per diventare esperti di bambini) si può cominciare come ricercatrice in università (il suo lavoro si trova ne  “Il dolce tuono” di Marco Lombardi), passare per una azienda di giocattoli, continuare facendo un bambino, poi la rappresentante di classe del bambino medesimo ed infine essere scelti da una agenzia che tra Arte e Comunicazione fa progetti per le scuole.

In ogni modo,  non multa sed multum (non molte cose, ma molto bene): tenete da conto e fate lavoro di manutenzione  solo per  gli argomenti (e le persone) più preziose. Come per gli affetti: la manutenzione non è per tutti quelli che conosciamo ma solo per gli amici del cuore.

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Ricettivi come spugne

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Houdini.jpg (Photo credit: Amazing Brian)

PB Qualche lustro fa ho lavorato per una multinazionale francese, produttrice di lingerie da donna.

Ero appena stata assunta come Product Manager. Venivo dagli orologi, portavo una seconda scarsa e non sapevo niente di reggiseni.

Durante lo Stage d’integration (dieci giorni di colloqui con i PM degli altri mercati europei e con le funzioni della casa madre di Parigi per far conoscere i meccanismi della compagnia ai nuovi assunti)  ho visitato lo stabilimento produttivo di Epernay. Una fabbrica piena di sartine in mezzo alle vigne della campagna francese. Zona di reggiseni e champagne.

Negli anni che ho poi passato in azienda, mi sono occupata di cataloghi, display, comunicazione, acquisto spazi pubblicitari, lanci di prodotto, riunioni agenti. Ma non ho mai dimenticato quella giornata in fabbrica che ho capitalizzato in modo straordinario e durante la quale ho imparato alcuni trucchi che mi hanno dato un potere quasi magico nella mia carriera di PM e poi di Marketing Manager in Chantelle.

Tra macchine per cucire, pizzi, elastici, macchinari per valutare l’omogeneità dei colori, la tensione dei tessuti, la purezza delle pezze, mi sono imbattuta nelle etichette.

Oltre alla composizione tessile e alle condizioni di lavaggio, insomma a quello che riconosciamo normalmente in una care label, c’erano alcuni numeri all’apparenza insignificanti: in realtà rappresentavano il mese, l’anno e il sito di confezione. Facevo il giro con l’ingegnere che dirigeva lo stabilimento, poco sensibile allo stile e più attento ai processi produttivi, alla disposizione delle macchine da cucire che riducevano i cicli di realizzazione dei capi da un mese a una settimana per essere più reattivi alle variabili del mercato.

Io, laureata in lettere e amante della moda, sono rimasta affascinata dalla visione architettonica di una collezione in cui non si vedeva il prodotto, ma solo lo scheletro di una organizzazione per riuscire a produrlo.

Per tutti gli anni seguenti, ogniqualvolta visitavo i punti vendita e mi trovavo a dovere affrontare qualche criticità con i clienti (ritardo consegne, bagno colore diverso per slip e reggiseno, difficoltà nel sell out di un particolare capo) davo risposte taumaturgiche: “certo, il colore presenta una impercettibile differenza perché lo slip è prodotto in Polonia e il reggiseno in Francia”, oppure “escludo che lei abbia questo capo in casa da  oltre un anno, dato che è stato prodotto in Tunisia solo sette mesi fa…”

La parte della veggente ha sempre avuto un effetto piuttosto interessante sul cliente (affascinato da tanta scienza), sugli agenti (che portavano in giro l’oracolo) e sul mio umore (che mi faceva sentire come il mago Houdini dopo una delle sue magie a platea estasiata).

Ancora oggi mi ricordo del mio ingegnere francese e sempre mi comporto come una spugna quando incontro qualcuno diverso da me e che ne sa più di me.

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