Archivi categoria: Organizzazione del lavoro

Fare carriera: ovvero di come partire servendo caffè e arrivare servendo i medesimi caffè ma con uno stipendio di parecchio più alto.

PB Recentemente mi è capitato di fare un salto di carriera. La classica promozione insomma.

E di essermi trovata, ai vertici mirabolanti della capitudine, a fare cose terrificanti che non facevo neanche da stagista qualche secolo orsono.

Chiaramente me ne lamento con la mia amica Paola al telefono. Al mattino, tra le 8,30 e le 8,45, prima che il mio percorso casa/ufficio incontri una maledettissima caduta di campo.

Paola, oltre a sopportare allegramente i miei rimbotti, mi ha fatto un commento sulla flessibilità, sulla capacità di andare contemporaneamente a diverse velocità.

Cosicché io mi trovo nella stessa giornata a fare il piano triennale dei ricavi dell’azienda e ad andare in banca per sollecitare l’emissione della carta prepagata. Io che la mia banca personale non so neanche dove sia. Io che non so il numero del mio conto corrente e neanche dove si guarda in busta paga per vedere il residuo delle ferie.

Quando incontro un nuovo partner sud americano (ogni riferimento ad un appuntamento della settimana scorsa è puramente casuale) mentre spiego i principi base della collezione, la natura dei materiali, i diversi significati in cui declinare il marchio per il mercato overseas, mi trovo a chiedere giro tavola se qualcuno prende il caffè, a spiegare la differenza tra un macchiato e un cappuccino, a fare scorta di acqua gassata e naturale.

Cavoli, ma qualcuno si è preoccupato della prenotazione degli alberghi? E del taxi per portarli a Malpensa?

La crescita professionale implica l’assunzione di nuove responsabilità e anche di un sacco di seccature. Normalmente ripagate anche da un bel po’ di soddisfazioni e da diverse notti insonni.

Urge un parallelismo: come figli coabitanti con genitori ci tocca chiedere il permesso per usare la macchina di famiglia e per rientrare tardi la sera. Come figli finalmente indipendenti siamo liberi di prendere il tram (la mamma non ci ha lasciato la macchina) e di invitare gli amici a casa all’ora che vogliamo (niente budget per la pizzeria).

 Urge un consiglio: servire il caffè è sempre un bel gesto. Fa molto padrona di casa. Riscuote normalmente sorrisi e approvazione. E se crediamo ai corsi e ricorsi della storia, si inizia da stagisti ma si finisce con lo stesso vassoio da direttori generali.

Urge una precisazione: oltre alla miscela, dobbiamo nel frattempo essere diventati capaci di scegliere una strategia, disegnare una collezione, negoziare un contratto. Ci consentirà di diventare camerieri ben pagati.

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Meno mail, più qualità del lavoro

PC In questi giorni di Agosto sto lavorando, avendo fatto due settimane di ferie in luglio. La mia capacità di concentrazione, malgrado il caldo soffocante, mi sembra ferrariinsperabilmente alta. Credo che uno dei motivi sia che ricevo pochissime mail, perché la maggior parte dei colleghi e clienti è già in ferie, fisicamente o con lo spirito.

Non posso che condividere la scelta della Ferrari di porre un limite alle mail in ufficio. In particolare l’azienda di Maranello ha imposto di non avere mai più di tre destinatari per mail, una scelta dettata dal desiderio di evitare le mail mandate in CC solo per mettere a posto la coscienza con una prova dell’avvenuta comunicazione. In realtà molto spesso queste mail non vengono neppure lette da chi ne è letteralmente sommerso.

Un’altra abitudine negativa è quella di usare la mail per la pigrizia di alzarsi e andare a parlare con il destinatario che magari è nell’ufficio di fianco, oppure per evitare gli inevitabili convenevoli legati a una telefonata.

Anche skype spesso viene usato per evitare il rapporto umano, essendone un buon surrogato. Ieri parlavo con un’amica che si deve sobbarcare ogni giorno un lungo tragitto in auto per raggiungere il posto di lavoro: mi diceva che potrebbe benissimo lavorare in remoto da casa, visto che ha accesso dal suo pc al server aziendale e che la maggior parte delle comunicazioni con i colleghi avviene già adesso via skype, anche se sono tutti fisicamente nella stessa struttura!

Ovviamente si potrebbe, con un minimo di autocontrollo, evitare le  continue interruzioni per leggere le mail o comunicare via skype, ma se appartenete alla categoria
COMPULSIVO:chi legge le mail a tutte le ore del giorno e della notte, ovunque si trovi

e i vostri interlocutori appartengono in gran parte alle categorie

CORTESE: risponde a qualsiasi email, ingorgandovi la posta, con mail di risposta che contengono un semplice “grazie”, “grazie ancora”, “piacere mio”

RISPONDITORE: risponde immediatamente a qualsiasi mail e si aspetta che facciate lo stesso

Farete fatica a trovare la concentrazione di un agosto italiano nel resto dell’anno.

(per chi se lo fosse perso o lo volesse rileggere, trovate il post sui diversi modus operandi legati alle email a questo link).

 

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Questione di Stile

PB  Sono stata un paio di giorni a Parigi.

Scrivo queste note a mano, sul retro di un contratto che poi dovrò ristampare per via che l’ho scarabocchiato con questo post, mentre volo verso Malpensa.

Ho preso spesso la metropolitana e ho visto molta gente (la metropolitana è sempre piuttosto imbottita di varia umanità).

Numerose ragazze e giovani donne si muovono per la città. Per studiare, per lavorare.

Non ho visto nessuno degli elementi che trovo abusati e davvero orribili in Italia:

–          neanche uno stivale estivo (chi è lo sciagurato che li ha inventati?). Solo sandali, di tutte le fogge, essenzialmente rasoterra.

–          Neanche una manicure con unghie ricostruite, gel, disegni, artigli posticci

–          Neanche una borsa di Louis Vuitton, accompagnata da scarpa simil jogging con tacco di Hogan, nessuna cintura Guess

–          Nessun capello stirato con la piastra alla Anna Tatangelo. Nessuna piega di quelle che esci ancora con la spazzola del parrucchiere attaccata.

–          Nessun uomo con mutanda logata in vista, nessun borsello Calvin Klein, nessuna polo di Burberry con fessino in tartan, nessun colletto rialzato dietro a mostrare il marchio (ma perché gli uomini italiani portano il colletto della polo alzato?)

Le ragazze mi parevano tutte belle e sottili (forse non hanno fame), indossavano soprattutto vestiti (a fiori, in voile, in cotone, senza maniche…), avevano i capelli sciolti o morbidamente raccolti con una naturalezza seducente.

Forse aiuta Parigi, la erre moscia, il loro scarso appetito, l’estate che sorride, il colorito diafano e il passo spedito. Ma certo nessuna di loro avrebbe potuto essere a proprio agio nel look Pokahontas  sexy che mi capita di incontrare sulla tratta Bisceglie – Duomo , linea rossa.

Consiglio a tutte un look francese: se non per trovare un fidanzato (che già non sarebbe male come effetto collaterale) almeno per trovare un lavoro. Au revoir.

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Diario di Viaggio tra sentimenti, retorica e tecnologia

PB Scrivo dal tavolino del TGV , diretta a Nantes.

Leggo un articolo (TGV Magazine, n°356 giugno 2013) sull’utilizzo dei Big Data per prevedere il futuro. A Santa Cruz (Stati Uniti), il crimine è diminuito del 23% (!) da quando la polizia si è dotata di un software che previene il crimine. Complicati algoritmi mettono insieme milioni di dati (mutuati da statistiche criminali, messaggi, e mail, smartphone, twitt, face book, flussi carte di credito) li incrociano con fattori ambientali  (meteo, date arrivo stipendio…) e producono una previsione talmente precisa del crimine che sta per essere commesso, che le forze dell’ordine arrivano sul luogo del misfatto prima che il misfatto sia stato commesso.

Io quindi prevedo un futuro in cui vi sconsiglio di darvi al crimine (vi beccano subito) ma vi consiglio di non trascurare questo “nuovo petrolio”: attrezzatevi culturalmente (Matematica? Statistica? Informatica?) e cercate di essere pronti per essere gli ingegneri creatori di questi algoritmi, i product manager che inventeranno prodotti interpretativi da vendere alle aziende, i sociologi che interpreteranno questi dati.

La sveglia questa mattina è stata alle 4,30 (harg)  dato che sono partita con il volo delle 6,30. A Parigi (8 gradi, sembrava una bella giornata di dicembre e io ero senza calze) ho atteso un’oretta all’aeroporto/stazione  (si, a Parigi la stazione del TGV è dentro l’aeroporto e si passa dal gate al binario senza soluzione di continuo) e ho scritto la traccia della mia presentazione (il mio speech è alle 14 e non sono riuscita a prepararmi in anticipo nonostante i consigli di Trampolino)

Così, benché io me la cavi piuttosto bene con il francese, mi mancava una parola che, retoricamente, sarebbe stata perfetta.

Potevo usare il google traslator (che palle però con il Black Barry dove lo schermo è miserabile) oppure farmi aiutare da qualcuno . Essendo femmina (un maschio piuttosto che chiedere un indirizzo fa tre volte il giro della circonvallazione: a me è successo a Magonza, di cui non ricordo nulla se non di averla circumnavigata , appunto, tre volte) ho chiesto a una ragazza che sedeva in fianco a me (in stazione ci sono i tavoli con la connessione internet, in modo da poter lavorare mentre si attende il treno). Mi sono ritrovata così a finalizzare il mio discorso con una sconosciuta fanciulla francese alle 8,30 del mattino in una gelida stazione.

In treno , di fianco a me, una coppia di anziani coniugi in viaggio per vacanza (indossano zainetto e scarpe da tennis) si sta godendo un film sul tablet. Lui ha le cuffiette audio e sta guardando un film d’azione. Lei sonnecchia e gioca con il suo I Pad.

Mmm, mi pare che in questo viaggio la tecnologia non vada per nulla a discapito delle relazioni. E oggi mi sembra (come mai? sarà questo sole gelido?) che il futuro sia pieno di opportunità. Nelle relazioni reali e in quelle digitali.

PS: il mio discorso – per vostra info – è andato molto bene (avevo rievocato per scriverlo, i consigli di Cicerone  per la captatio benevolentiae , quelli di Aldo Grasso ai grillini per l’uso di  immagini figurate , il discorso di Kennedy ai berlinesi per la empatia che è stato in grado di trasmettere e quelli di una ragazza in stazione a Parigi per una traduzione corretta).  Si trattava della presentazione della Primavera Estate 2014. Ed è stato alla fine una buona miscela di retorica, sentimenti e tecnologia.

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Il successo passa dal lungo o dal breve?

PB  L’ultimo inserto del Corriere della Sera ( il Sette che ha ispirato il post di Paola sul “fattore S”) è una miniera di preziose gemme. Una fra tutte la famosa citazione di Arbasino a proposito del fatto che in Italia “c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di brillante promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerabile maestro”.

E a proposito di maestri, mi viene in mente uno degli insegnamenti che più mi sono stati utili , impartitomi dall’allora mio capo in Armani, Ing Fantò.

Lottavamo con passione per il successo di EA7, la linea di abbigliamento dedicato alla sport all’interno dell’offerta Armani. Ma proprio allo sport attivo (roba per andare a sciare o per fare le regate, non per passeggiare in Corso Vittorio Emanuele con look Sankt Moritz o Porto Cervo).

Si combatteva contro fattori di criticità esterna (chi avrebbe mai messo una giacca a vento di Armani per andare a sciare?) e fattori critici di credibilità interna (eravamo parte di una Business Unit nata una quarantina di anni prima per fare preziose cravatte di seta e sciarpe fil coupé: come potevamo essere quelli a cui affidare una linea di abbigliamento tecnico?)

Mentre costruivamo un ufficio prodotto, una rete commerciale, una distribuzione, una filosofia nuova, il mio capo mi faceva pressione su dettagli apparentemente poco importanti, su progetti paralleli a breve termine.

A me pareva di sacrificare energie preziose (di tempo, attenzione, risorse) a scapito del “grande progetto”. Era dunque importante solo per me? O più per me che per lui?

Fu a quel punto che Fantò mi spiegò quanto fosse determinante, per avere la fiducia su un progetto a lungo termine, dare prove di capacità, pillole di successo, anche su progetti temporalmente più vicini, più verificabili sul breve.

Le atmosfere, gli umori in azienda sono mutevoli. Soprattutto in un mondo, quello della moda, dove i manager possono cambiare con il ritmo delle cartelle colore. La delega per agire non ha garanzia di anni (anche per progetti che dovono durare anni e che rispettano il timing!) e la fiducia va mantenuta calda da tappe di avvicinamento che tatticamente servono a confortare la decisione presa.

E’ opportuno creare piccoli Show case di successo per avere la libertà intellettuale e il tempo necessario per agire profondamente su progetti a più ampio respiro.

Rifare completamente il catalogo della linea di Intimo (un progetto grafico a limitato impatto strategico) permise di avere un immediato impatto di comunicazione su chi lavorava alle collezioni: l’approccio parve subito nuovo, dinamico. I prodotti ebbero il tempo di essere rinnovati in un processo di almeno quattro stagioni (dallo stile, al piano taglie, alla commercializzazione), ma gli strumenti di vendita subito rinnovati diedero credibilità alla promessa. David Beckham in slip affisso sui muri della città, oltre a dare il buon umore a chi prendeva il tram ogni mattina per andare a lavorare, ha contribuito incosapevolmente alla realizzazione delle giacche a vento.

A chi comincia una carriera consiglio di lavorare sempre a grandi progetti (la visione strategica è parte del talento di chi lavora nel marketing), senza dimenticare però che i piccoli obiettivi a corollario (non necessariamente connessi) sono uno strumento per raggiungerli e non una dispersione di energie.

Guardare solo al lungo termine è spesso deleterio per mantenere la fiducia di chi ci ha affidato una missione e di chi ci deve seguire sul campo: la riuscita di un progetto (anche piccolo) è la più efficace delle motivazioni.

A me è capitato di mettere al centro della riuscita di una collezione il rispetto del timing perché sapevo che per la prima stagione era l’unico obiettivo che avremmo potuto raggiungere: ma non potevo permettermi una frustrazione di 12 mesi, prima dei quali non avremmo raggiunto obiettivi più importanti.

Sicuramente il mio capo era una brillante promessa (queste cose me le insegnava da Direttore Generale  e non aveva compiuto ancora quarant’anni) , posso dire di avere pensato ogni tanto di lui che fosse uno stronzo (chi non lo ha pensato del proprio capo almeno una volta?) ma certo è stato un maestro (sul “venerabile”  per il momento soprassiedo, lascio l’esclusiva a Arbasino e aspetto almeno che a Fantò vengano i capelli bianchi)

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Il bello delle chiacchiere

PB Chiacchiere (non quelle di Carnevale a minacciare la nostra dieta per tutta la settimana) ma quelle che si fanno attorno a un tavolo.

Sono stata, la settimana scorsa, un paio di giorni a Montecarlo. E ho goduto del piacere della buona conversazione. Non succede spesso e soprattutto non è comune per chi organizza cene di lavoro, riuscire a trasformare un incontro che parte da uno spunto professionale (quante volte ci capitano vernissage, lanci di prodotto, eventi in cui fingiamo di divertirci?) in un incontro davvero piacevole.

Si trattava del “Diner des partenairs” del Monte-Carlo Rolex Master, preparatorio al torneo che si terrà nel Principato di Monaco il prossimo mese di aprile .

I padroni di casa (cioè il direttore del Torneo e i suoi collaboratori) si sono presi cura degli ospiti. Ci conoscevano per nome, ci venivano incontro per salutarci, si preoccupavano di presentarci agli altri invitati. Come appunto, ospiti di una casa, di una famiglia.

Per me, relativamente nuova del mondo del tennis e non bazzicante Montecarlo per usuali diletti (ho piuttosto una storia di vacanze in moto in Sicilia, più che di chemin de fer al Casino del Principato) la gradevole sensazione di avere come anfitrione un padrone di casa e non una agenzia di PR.

La composizione dei tavoli credo sia stata fatta con cura, mescolando uomini e donne, matricole e veterani, Club e Aziende. Con il risultato di avere sorrisi e conversazioni vivaci in ognuno dei tavoli.

Di fronte a me l’incantevole Monsieur Truchi (direttore del Country Club), di fianco a me Monsieur Hoppenot, Vice President dell’ Hotel de Paris.

Con Mr Truchi ci siamo persi negli aneddoti del tennis, di quando ventenne giocava con Sergio Tacchini ad Ascoli Piceno e di quanto trovasse, anche recentemente, amabile Pierrette , la bella tennista diventata poi sua moglie.

Ma poi alla mia sinistra un fiume di parole e bollicine mi ha svelato i segreti delle cave dell’Hotel de Paris: due chilometri di cantine sotterranee piene dei vini più preziosi del pianeta. Bottiglie che non sono neanche nel menù (per evitare che grossolani milionari le bevano senza gustarle) e che costano 10.000 euro l’una.

Le mani tremanti dei giovani sommelier che, novizi primi della classe delle migliori scuole di hotellerie d’Europa, aprono bottiglie preziosissime con il cuore in gola. E che dopo qualche anno maneggiano tesori come se fossero lattine di gazzosa.

Bottiglie speciali che non si aprono e che si custodiscono per le generazioni future, altrimenti destinate a non poterle mai gustare.

Non finivo più di ascoltare e chiedere e sbirciare le foto sul blakberry.

La complicatissima formula per organizzare una cena di lavoro in cui nessuno guardi  l’orologio per scappare non appena le buone maniere lo consentano, è parsa quanto di più semplice e naturale potesse avvenire: grande esempio per chi si occupa di organizzare eventi di lavoro. Pensarli come fossero una cena a casa, in cui si invitano un paio di colleghi simpatici, gli amici del teatro e la ex compagna di scuola.

Certo una vista spettacolare sul mare, una cucina stellata e la brezza della Cote d’Azur aiutano. Ma nulla sono rispetto alle parole (cioè all’ avere qualcosa da raccontare e a raccontarlo bene) e alla passione che quando volano alto fanno sognare anche dalle cantine.

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Benvenuti al sud

PB Lunedì scorso, per lavoro, sono andata in Puglia.File:Cattedrale di Trani.JPG

Per una volta non a vedere negozi e ipotizzare sbocchi di mercato, ma a vedere la produzione, laddove i capi che poi si vedono in scintillanti vetrine , si immaginano come astratti grafismi (disegnati sul cartamodello) , si tagliano ( in materassi di tessuto stesi su un tavolo lunghissimo) , si confezionano.

Poco palcoscenico e molti camici azzurri per chi è addetto alla produzione.

Io adoro il dietro le quinte. Mi piace vedere il disegno che esce dal CAD. Per la prima volta ho visto come si tagliano i tessuti tubolari (quelli senza cuciture) e ho capito perché è necessario per questi capi che la produzione sia numericamente importante: qui le fustelle sono sculture in metallo, che cambiano per ogni modello e ogni taglia!

Ho trovato una azienda piuttosto orgogliosa della propria qualità, con molte persone giovani al lavoro. La scelta infatti dell’imprenditore, non essendoci grandi aziende simili nella zona a cui “rubare competenze”, è di scegliere collaboratori giovani da formare e poi tenere in azienda

Pranzo a Trani (cittadina bellissima che non avevo mai visitato). Al tavolo di fianco al nostro sedeva un viso noto: un mio ex stagista in Dolce&Gabbana , evidentemente soddisfatto manager dell’Agroalimentare (ricordate il post di Paola sulle prospettive nell’agroalimentare? Rileggetevi il post del 22 novembre sui giovani poco choosy e molto interessati all’agricoltura)

Riporto dal mio lunedì pugliese (oltre a una certa dose di stanchezza derivata dal decollare da Malpensa alle 7,25 del mattino e riatterrarvi la sera stessa alle 22,40) le seguenti considerazioni:

–          se riuscite a scegliere andate a lavorare in una azienda che abbia voglia, energia per formarvi.

–          puntate su quello che è maggiormente valido in Italia e non trascurate il settore agroalimentare: l’eccellenza italiana è nella moda, nel design, nella cultura, nel turismo e, appunto, nell’agroalimentare

–          Il lavoro consente di vedere , fare cose che altrimenti non si farebbero. E non si tratta solo di disponibilità economica: chi penserebbe mai di fare una vacanza nella sala taglio di una azienda di underwear?  Eppure a me è piaciuta più degli ipogei di Canosa di Puglia!

–          Il lavoro, anche se faticoso, offre spesso, oltre che un salutare salario, la possibilità di vedere il nostro paese con occhi diversi e di scoprire realtà operose e bellissime tra gli ulivi e il mare.

Io ho poi scoperto che se un mio stagista è già un affermato manager devo immediatamente acquistare una buona crema antirughe. Ma questo per il momento non è un vostro problema.

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Stereotipi, ostriche e multinazionali

PB La scorsa settimana sono stata a Nantes (in Francia, a nord ovest, vicino all’oceano) per un incontro di lavoro.

Ho quindi allegramente parlato francese (è una lingua che adoro ma che parlo raramente) e ho mangiato molte ostriche (adoro anche quelle e le mangio più raramente di quanto non parli il francese).

Mi sono trovata a riflettere sui pregi e sui difetti della “italianità” poiché si trattava di valutare una possibile collaborazione tra una azienda/un marchio italiani  e una azienda/ una distribuzione francesi.

Molto convinta dei nostri punti di forza (un prodotto ricco di contenuti, una eleganza innata, un DNA sportivo e credibile, una creatività e una capacità di ascoltare il mercato addomesticandolo in ogni modo al buon gusto), mi sono trovata ad essere franca sui punti di debolezza.

Cosicché mi è stato detto che io, passionale, bruna, alta un metro e sessanta, solare e apollinea, non paio molto italiana (!) Nel senso che non racconto frottole, non tento di alterare la realtà, non prometto ciò che so che non manterrò, non cerco scorciatoie.

Un consiglio dunque a chi inizia a formarsi in una nuova professione: se potete scegliere l’azienda in cui fare il vostro primo stage o il vostro primo lavoro, la filiale italiana di una multinazionale straniera potrà essere una buona scuola di approccio internazionale.

Normalmente questa esperienza (che alla lunga diventa frustrante, vi avviso: se siete creativi e brillanti non resisterete a lungo) aiuta a creare una forma mentis cartesiana laddove per natura noi si tende a pulcinellare.

Essere obbligati a rendere conto alla casa madre, impone a noi, cuochi, sarti, artisti, di confrontarci con modelli rigidi, con numeri confrontabili, con dati verificabili, con teoremi che altrimenti ignoreremmo con filosofica leggerezza.

Alla lunga davvero stufa (una domanda che si fanno gli intelligenti che lavorano per le multinazionali è: ma quando smettiamo di descrivere il nostro business e cominciamo a fare business?)

Ma l’approccio francese, per esempio, (razionale e pedagogico) ha una attenzione davvero speciale alla formazione: è una bella opportunità per chi inizia a lavorare. Io so fare le previsioni di vendita grazie a una azienda francese per la quale ho lavorato tre anni.

Gli americani ti sfiniscono di richieste numeriche, quote di mercato, simulazione di scenari, lavoro di team.

Alla fine (dopo essere stati formati e abituati ad arrivare puntuali alla scadenze di “quarters”) scatta un sano anticorpo che ci impedisce di partecipare – senza cinismo – a team building che a noi paiono terapie di gruppo degli alcolisti anonimi.

Ma questi primi anni di rigore oltre alpino, ci avranno insegnato a confrontarci con realtà internazionali, a familiarizzare con linguaggi e processi culturali per noi non comuni, ad apprezzare un paio di dozzine di ostriche senza per questo sentirsi traditori del bollito misto con la mostarda o della parmigiana di melanzane (ché, sì,  siamo italiani, ma l’Italia  è lunga e variegata, e noi meno banali dei nostri stereotipi)

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