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AAA stagista con voglia di imparare cercasi

PC Alessandra Selmi, l’editor che ci ha gentilmente ricordato in un recente post le regole per scrivere in italiano corretto, cerca per la società Bietti, dove lavora, uno studente in materie umanistiche a cui proporre uno stage in redazione.devoto_oli

Il candidato può essere anche alla sua prima esperienza, ma i requisiti “minimi” sono un’ottima conoscenza della lingua italiana, in particolare la grammatica, e una buona conoscenza dell’uso di Word.

La risorsa verrà inserita in redazione e riporterà all’editor, Alessandra stessa. Le mansioni spaziano da piccoli lavori di segreteria, a cose più tecniche: lettura dei manoscritti in valutazione, redazione di schede di lettura, correzione di bozze. Lo stagista, dunque, avrà la possibilità di imparare davvero un po’ tutto l’iter di pubblicazione di un libro in una redazione piccola (con tutti i vantaggi che ne derivano).
Nel dirmi, infine, che lo stage, almeno allo stato attuale delle cose, non è retribuito, ma è previsto un rimborso spese, Alessandra mi sottolinea che garantisce però la sua massima disponibilità a insegnare tutto quello che sa di questo mestiere, durante il percorso di stage. Abbiamo quindi divagato commentando che questo purtroppo spesso non accade, e ne è nato il divertente racconto di una delle prime esperienze di Alessandra e un utile appello ai giovani candidati per la posizione di stage.

“Alcuni anni fa collaborai come redattore per una prestigiosa rivista di moda. La prima cosa che imparai fu che nessuno mi avrebbe insegnato nulla. Non con i metodi tradizionali, almeno. Appresi tutto (e non fu poco) col tryal and error.
Scovai la toilette – sì, nessuno si prese la briga di dirmi: «Se ti scappa la pipì, è la terza porta sulla sinistra» – entrando a caso in tutti gli uffici. Una pioggia di «Ops, mi scusi!» e «Ho sbagliato, cercavo il bagno!» e di occhiatacce malevole, fino alla stanza giusta, quella piastrellata per intenderci. E così trovai anche l’archivio, le matite e i post it (all’inizio me li portavo da casa), il reparto grafica, la macchinetta del caffè e i server, che fortunatamente convivevano in un unico loculo. Quando chiesi di assistere a un servizio fotografico, un’astuta collega mi disse che non c’era nulla da vedere, e infatti ancora oggi non so che aspetto abbia un vero set, e nemmeno un guardaroba, nonostante ci tenessi moltissimo.
Nessuno aveva tempo, e forse voglia, di spiegarmi a cosa servisse il lavoro che stavo svolgendo, che cosa c’era stato prima e cosa sarebbe venuto dopo, perché le cose si sbrigavano in un certo modo e quali erano i faux pas assolutamente da evitare. Se sbagliavo, il direttore mi omaggiava di una sonora lavata di capo – sonora, nel senso che l’avrebbero sentita anche quelli dei piani di sotto. Quando mi dissero di indossare un “abito da cocktail” a un evento fieristico, spesi la bellezza di 300 euro per un Valentino in viscosa viola, che nel mio guardaroba rappresenta ancora oggi il peggior investimento di sempre (del resto, avevo già delle Prada in tinta che sembravano fatte apposta…); è inutile che vi dica che a quell’evento le mie colleghe indossavano jeans e maglioncino, e che io mi sentii una contadinotta vestita a festa.
Con questo metodo selvaggio, imparai a scrivere una didascalia, e quindi un titolo e poi un articoletto e infine un servizio. Così imparai a districarmi nel mondo Apple/Macintosh, in cui tutti i pulsanti stanno dall’altra parte e il desktop si chiama scrivania, e appresi le basi del più importante programma di grafica editoriale. Imparai moltissime cose, non lo nego, tante delle quali rappresentano ancora oggi una marcia in più nel mio curriculum. E non solo.
Imparai, cosa ancora più importante dell’uso di un MacBook, l’importanza della reputazione e dell’immagine professionale. Imparai a proporre le mie idee senza balbettare, a non chiedere scusa ogni due parole, a non zerbinarmi con tutti. Imparai quant’è dura la vita lavorativa e come si sopravvive in un ambiente ostile e competitivo. Imparai a diventare una persona adulta.
Senza quella difficile esperienza oggi non sarei dove sono, cioè esattamente dove voglio essere.
Sono editor per Bietti, una piccola casa editrice che pubblica libri molto belli, e spesso ho a che fare con giovani stagisti, a cui affidiamo correzioni di bozze o trascrizioni e altri piccoli lavori di redazione. In ognuno di loro rivedo me stessa e la promessa che mi sono fatta uscendo (indenne) da quella famosa redazione: che se mi fossi trovata in una posizione di superiorità – presunta o reale – non avrei mai riservato ai miei collaboratori lo stesso trattamento. Per due motivi pratici e prosaici: perché chi impara bene un mestiere poi lavora bene, e perché non voglio trovarmi le gomme dell’auto squarciate.
Mi rivolgo dunque ai giovani che si affacciano sul mondo del lavoro. Abbiate l’umiltà di riconoscere che, nonostante i vostri titoli, non sapete fare sostanzialmente nulla; abbiate il coraggio di imparare e di chiedere; se non capite o non sapete, non millantate per darvi arie: ditelo. Se trovate qualcuno disposto a insegnarvi qualcosa, prestategli attenzione. Se vi fanno un’osservazione – e, spero per voi, garbatamente – prendetela come un’opportunità di miglioramento e non come una sterile reprimenda.
E mi rivolgo anche ai professionisti, molti dei quali potrei trovarmi davanti in futuro, in un colloquio in cui sono io la candidata. Non siate gelosi delle vostre conoscenze; non temete di trasmetterle a chi deve ancora crescere; non abbiate paura della rigogliosa, giovane concorrenza: se valete, nessuno vi porterà via il vostro posto per aver insegnato qualcosa; al massimo vi ameranno come si ama un mentore generoso e saggio. Onorate la vostra arte trasmettendola agli altri, con passione, tenacia e pazienza. E non sbraitate nei corridoi per far sapere a tutti che siete il capo.

P.S.: vendo abito viola in viscosa di Valentino, usato una sola volta, taglia 42. (Alessandra Selmi)”

Chi fosse interessato allo stage (o all’abito di Valentino) può lasciare l’indirizzo email a trampolinodilancio, così lo mettiamo in contatto direttamente con Alessandra Selmi.

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Il bello delle chiacchiere

PB Chiacchiere (non quelle di Carnevale a minacciare la nostra dieta per tutta la settimana) ma quelle che si fanno attorno a un tavolo.

Sono stata, la settimana scorsa, un paio di giorni a Montecarlo. E ho goduto del piacere della buona conversazione. Non succede spesso e soprattutto non è comune per chi organizza cene di lavoro, riuscire a trasformare un incontro che parte da uno spunto professionale (quante volte ci capitano vernissage, lanci di prodotto, eventi in cui fingiamo di divertirci?) in un incontro davvero piacevole.

Si trattava del “Diner des partenairs” del Monte-Carlo Rolex Master, preparatorio al torneo che si terrà nel Principato di Monaco il prossimo mese di aprile .

I padroni di casa (cioè il direttore del Torneo e i suoi collaboratori) si sono presi cura degli ospiti. Ci conoscevano per nome, ci venivano incontro per salutarci, si preoccupavano di presentarci agli altri invitati. Come appunto, ospiti di una casa, di una famiglia.

Per me, relativamente nuova del mondo del tennis e non bazzicante Montecarlo per usuali diletti (ho piuttosto una storia di vacanze in moto in Sicilia, più che di chemin de fer al Casino del Principato) la gradevole sensazione di avere come anfitrione un padrone di casa e non una agenzia di PR.

La composizione dei tavoli credo sia stata fatta con cura, mescolando uomini e donne, matricole e veterani, Club e Aziende. Con il risultato di avere sorrisi e conversazioni vivaci in ognuno dei tavoli.

Di fronte a me l’incantevole Monsieur Truchi (direttore del Country Club), di fianco a me Monsieur Hoppenot, Vice President dell’ Hotel de Paris.

Con Mr Truchi ci siamo persi negli aneddoti del tennis, di quando ventenne giocava con Sergio Tacchini ad Ascoli Piceno e di quanto trovasse, anche recentemente, amabile Pierrette , la bella tennista diventata poi sua moglie.

Ma poi alla mia sinistra un fiume di parole e bollicine mi ha svelato i segreti delle cave dell’Hotel de Paris: due chilometri di cantine sotterranee piene dei vini più preziosi del pianeta. Bottiglie che non sono neanche nel menù (per evitare che grossolani milionari le bevano senza gustarle) e che costano 10.000 euro l’una.

Le mani tremanti dei giovani sommelier che, novizi primi della classe delle migliori scuole di hotellerie d’Europa, aprono bottiglie preziosissime con il cuore in gola. E che dopo qualche anno maneggiano tesori come se fossero lattine di gazzosa.

Bottiglie speciali che non si aprono e che si custodiscono per le generazioni future, altrimenti destinate a non poterle mai gustare.

Non finivo più di ascoltare e chiedere e sbirciare le foto sul blakberry.

La complicatissima formula per organizzare una cena di lavoro in cui nessuno guardi  l’orologio per scappare non appena le buone maniere lo consentano, è parsa quanto di più semplice e naturale potesse avvenire: grande esempio per chi si occupa di organizzare eventi di lavoro. Pensarli come fossero una cena a casa, in cui si invitano un paio di colleghi simpatici, gli amici del teatro e la ex compagna di scuola.

Certo una vista spettacolare sul mare, una cucina stellata e la brezza della Cote d’Azur aiutano. Ma nulla sono rispetto alle parole (cioè all’ avere qualcosa da raccontare e a raccontarlo bene) e alla passione che quando volano alto fanno sognare anche dalle cantine.

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Benvenuti al sud

PB Lunedì scorso, per lavoro, sono andata in Puglia.File:Cattedrale di Trani.JPG

Per una volta non a vedere negozi e ipotizzare sbocchi di mercato, ma a vedere la produzione, laddove i capi che poi si vedono in scintillanti vetrine , si immaginano come astratti grafismi (disegnati sul cartamodello) , si tagliano ( in materassi di tessuto stesi su un tavolo lunghissimo) , si confezionano.

Poco palcoscenico e molti camici azzurri per chi è addetto alla produzione.

Io adoro il dietro le quinte. Mi piace vedere il disegno che esce dal CAD. Per la prima volta ho visto come si tagliano i tessuti tubolari (quelli senza cuciture) e ho capito perché è necessario per questi capi che la produzione sia numericamente importante: qui le fustelle sono sculture in metallo, che cambiano per ogni modello e ogni taglia!

Ho trovato una azienda piuttosto orgogliosa della propria qualità, con molte persone giovani al lavoro. La scelta infatti dell’imprenditore, non essendoci grandi aziende simili nella zona a cui “rubare competenze”, è di scegliere collaboratori giovani da formare e poi tenere in azienda

Pranzo a Trani (cittadina bellissima che non avevo mai visitato). Al tavolo di fianco al nostro sedeva un viso noto: un mio ex stagista in Dolce&Gabbana , evidentemente soddisfatto manager dell’Agroalimentare (ricordate il post di Paola sulle prospettive nell’agroalimentare? Rileggetevi il post del 22 novembre sui giovani poco choosy e molto interessati all’agricoltura)

Riporto dal mio lunedì pugliese (oltre a una certa dose di stanchezza derivata dal decollare da Malpensa alle 7,25 del mattino e riatterrarvi la sera stessa alle 22,40) le seguenti considerazioni:

–          se riuscite a scegliere andate a lavorare in una azienda che abbia voglia, energia per formarvi.

–          puntate su quello che è maggiormente valido in Italia e non trascurate il settore agroalimentare: l’eccellenza italiana è nella moda, nel design, nella cultura, nel turismo e, appunto, nell’agroalimentare

–          Il lavoro consente di vedere , fare cose che altrimenti non si farebbero. E non si tratta solo di disponibilità economica: chi penserebbe mai di fare una vacanza nella sala taglio di una azienda di underwear?  Eppure a me è piaciuta più degli ipogei di Canosa di Puglia!

–          Il lavoro, anche se faticoso, offre spesso, oltre che un salutare salario, la possibilità di vedere il nostro paese con occhi diversi e di scoprire realtà operose e bellissime tra gli ulivi e il mare.

Io ho poi scoperto che se un mio stagista è già un affermato manager devo immediatamente acquistare una buona crema antirughe. Ma questo per il momento non è un vostro problema.

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La manutenzione: dai muscoli, passando per gli affetti, finendo nelle relazioni professionali

PB  Da qualche tempo in ufficio, abbiamo deciso che a pranzo si va in trattoria (il bar ci ha stufato) e soprattutto che ci si va a piedi. 20 minuti per andare. 20 minuti per tornare.

Esigenza partita dal desiderio di sgranchirsi le articolazioni stanche di troppa scrivania e di rientrare nella taglia di campionario dopo le intemperanze natalizie.

Gli effetti collaterali sono stati un approfondimento delle relazioni (40 minuti a piedi tutti i giorni ti fanno scoprire che la fidanzata dello stilista si occupa di food design, che la responsabile della comunicazione fa nordic walking, che il direttore amministrativo ha il sogno segreto di aprire un vivaio).

Così, tra ginnastica e conversazione, abbiamo fatto alcune riflessioni sul concetto di manutenzione.

Manutenzione degli oggetti (come lavare a mano il proprio pullover preferito o riparare in garage una Ducati Scrambler) o degli affetti (come avvisare se si arriva tardi, chiedere scusa se serve, fare una telefonata o un sorriso al di là dal superminimo a chi si ama).

Il principio è lo stesso per le proprie relazioni e le proprie competenze professionali

La manutenzione delle relazioni professionali

Non perdiamo di vista i professori che abbiamo stimato o i professionisti che ci hanno aiutato: teniamoli informati dei nostri progressi, teniamoci informati delle loro pubblicazioni e della loro carriera (per me il prof Bosisio dell’università, la Colavito di Manager Italia).

Teniamo d’occhio i colleghi o i collaboratori con i quali abbiamo costruito progetti, raggiunto risultati, che ci hanno insegnato un lavoro (per me la Marabini del commerciale di Armani, la Cicero dell’ufficio stile, la Carpaneto che è già comparsa sul Blog, l’infaticabile Simoni, la Robi Milan che mi ha iniziato alle pv…)

Sentiamo i capi che abbiamo stimato, che ci hanno stimato (per me la rossa  Ghisla in Chantelle, l’anglosassone Crespi in Dolce&Gabbana, il mitico Ing. Fantò in Armani)

Teniamo i contatti dei fornitori migliori, delle agenzie più interessanti, della aziende più vivaci con le quali siamo entrati in contatto.

La manutenzione delle competenze

Se abbiamo un talento o la sorte ci porta a dedicarci a un argomento che riteniamo di buon potenziale e che sentiamo nelle nostre corde, non accontentiamoci della sufficienza. Diventare un esperto, un punto di riferimento per un settore specifico, può diventare una carta preziosa da giocare per essere preferiti ad altri candidati nel momento del confronto. Quindi teniamoci aggiornati e allenati, facciamo manutenzione delle nostre competenze (linguistiche, tecniche o relazionali che siano).

Paola, la mia co blogger, sa bene che (per diventare esperti di bambini) si può cominciare come ricercatrice in università (il suo lavoro si trova ne  “Il dolce tuono” di Marco Lombardi), passare per una azienda di giocattoli, continuare facendo un bambino, poi la rappresentante di classe del bambino medesimo ed infine essere scelti da una agenzia che tra Arte e Comunicazione fa progetti per le scuole.

In ogni modo,  non multa sed multum (non molte cose, ma molto bene): tenete da conto e fate lavoro di manutenzione  solo per  gli argomenti (e le persone) più preziose. Come per gli affetti: la manutenzione non è per tutti quelli che conosciamo ma solo per gli amici del cuore.

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IED E OGILVY & MATHER CERCANO NUOVI TALENTI BRAVI A RACCONTARE STORIE

PC Forse hai un talento e non lo sai…”. Esordiscono così i video virali pensati e realizzati da Ogilvy & Mather Advertising per reclutare studenti per il  corso di copywriting di Ied. Caricati su Youtube e subito condivisi da molti utenti, i tre video virali spiegano in modo divertente e coinvolgente che raccontare storie potrebbe diventare un lavoro.

Video virali per il corso Ied di copywriting

Video virali per il corso Ied di copywriting

Un progetto così innovativo ci ha incuriosito e abbiamo quindi chiesto a Ogilvy & Mather Advertising, dove hanno lavorato sul progetto i direttori creativi esecutivi Giuseppe Mastromatteo e Alessandro Sabini, con il contributo del copy Maurizio Rosazza Prin, e a Ied di raccontarci di più. Ci hanno risposto Alessandro Sabini per Ogilvy & Mather e Matteo Battiston, direttore Ied Comunicazione.

Com’è nata l’idea di presentare un nuovo corso attraverso uno strumento innovativo nell’ambito della formazione: la diffusione di video virali?

Alessandro Sabini: la scelta dei virali nasce per tanti buoni motivi: il primo, sicuramente di natura economica. Una scuola come IED, seppur una delle realtà più importanti a livello internazionale nella formazione di talenti creativi, non può certo permettersi una pianificazione televisiva per promuovere un solo corso. Ma soprattutto, per via del fatto che il target da raggiungere vive in rete: è lì che recupera tutti i contenuti e le informazioni più importanti per la propria vita. Dalla musica agli amici fino ad arrivare a tutto ciò che riguarda scuola, formazione e futuro.

In più, abbiamo usato un format che potesse valere sia come video virale, ma anche (e soprattutto) come activation sfruttando le reazioni vere, di ragazzi veri fermati per strada e messi nelle condizioni di dover fare appello alle proprie capacità creative e di storytelling. Proprio per dimostrare che la creatività è già dentro di noi. Basta saperla sfruttare.

Matteo Battiston: Trasformare la fine di una giornata nell’inizio di una nuova avventura. 

Questo è il concetto base da cui siamo partiti assieme ad Alessandro Sabini, Direttore Creativo di Ogilvy & Mather e coordinatore del corso. Molti ragazzi, magari già avviati alle loro professioni, nutrono passioni e curiosità o nascondono un talento che attende la giusta opportunità per essere messo in gioco. Dall’altro lato le agenzie di comunicazione – piccole, indipendenti, digitali oppure affermate e internazionali come quella diretta da Alessandro – sono alla continua ricerca di profili in grado di concepire e sviluppare messaggi e narrazioni adeguate a una frammentazione di pubblici e mezzi di comunicazione sempre più complessa.

In questo punto di incontro vive l’opportunità che vogliamo dare ai partecipanti del Boot Camp, un vero e proprio “campo di addestramento” dove teoria e pratica si accompagnano sempre. Un camp creativo che affronta tutti i temi e tutte le figure che ruotano attorno al mestiere di scrivere e pensare: advertising, web writing e concept thinking. Durante il Copywriting Boot camp si acquisiranno e si affileranno tutte le armi che servono al creativo: dalla comunicazione classica – tv, stampa, affissione e radio – alle nuove forme di comunicazione: web engaging, live activation, consumer experience.

I video virali che abbiamo sviluppato e si sono diffusi in rete sono un esempio di tutto questo, un vero teaser dei risultati che si potranno ottenere. 

L’idea è semplice: esiste un talento comunicativo che spesso teniamo nascosto o non sappiamo di avere, e quel talento ha un valore enorme. Cercavamo storie di tutti i giorni, dove ognuno di noi, in qualche modo si riconosce e immedesima. 

Poi, con Alessandro Sabini, il resto è venuto da sé: con guide così, le avventure sono più facili da intraprendere con coraggio. E anche più belle!

Quali prospettive si aprono per i giovani che seguiranno questo corso di copy writing, con una particolare enfasi sullo storytelling? 

Alessandro Sabini: Il corpo docenti è formato da una schiera di giovani docenti/professionisti. Alcuni tra i migliori nomi provenienti dall’advertising, il digital, il planning e anche clienti di brand internazionali. I temi trattati sono i più attuali e i profili che cercheremo di formare sono quelli che in futuro avranno più possibilità di entrare in questo difficile mercato del lavoro, quello della comunicazione. Ecco perché in classe non si parla di pubblicità, ma di storytelling, di creazione di contenuti, di integrazione e di futuro del digital. Poi, ovviamente, le prospettive di ciascuno studente dipenderà dalle capacità di ognuno di loro di sfruttare al meglio gli strumenti messi a disposizione. 

A questi link i video virali: http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=b3ZBW8fHEZw

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LE 5 DOMANDE DA FARE DURANTE IL COLLOQUIO

PC Nel post sulle domande da non fare durante il colloquio abbiamo anticipato che ogni intervista termina con la fatidica frase del selezionatore: ha delle domande da farmi? La scelta peggiore (ma forse quella più frequente) è rispondere di no, dimostrando così poco interesse nel lavoro e perdendo un’ottima occasione per scoprire di più e poter indirizzare meglio i successivi contatti con l’azienda.

Si possono dividere le domande da fare in due grandi categorie:

  • quelle sul business
  • quelle sul tipo di lavoro

Quelle sul business non sono ovviamente generalizzabili (per ogni azienda prima del colloquio bisognerà preparare un paio di domande ad hoc): in generale ricordatevi di non chiedere cose ovvie e facilmente reperibili sui motori di ricerca, ma cercate di capire di più sulla filosofia aziendale, sugli obiettivi a lungo termine, sulla sua capacità di reagire alla crisi.

Le domande più importanti sono però quelle sul tipo di lavoro per il quale state facendo il colloquio. I selezionatori intervistati da Forbes suggeriscono:

1. Come descrivereste il candidato ideale? Quali sono le sue caratteristiche ideali?

Tenete a portata di mano il solito taccuino e una penna e non abbiate paura di prendere appunti, per usarli in seguito per dimostrare, utilizzando esempi e esperienze passate, che avete quanto l’azienda ricerca.

2. Come pensa che il candidato possa esserle di supporto?

Una domanda molto importante, che va posta solo nel caso in cui non state facendo il colloquio con un cacciatore di teste, ma siete seduti davanti a quello che sarà il vostro capo. Infatti fa percepire a chi vi intervista che volete davvero essere d’aiuto e che renderete la sua vita più facile.

3. Come rientra nei piani a lungo termine dell’azienda questa posizione?

La domanda vi permette di raccogliere informazioni sia sul business nel medio-lungo termine della società, sia di capire perché si è creata l’esigenza di rinforzare l’organico con la vostra presenza. Per rendere meno anglosassone e diretta la domanda, potete premettere una forma di cortesia, come Se possibile, mi piacerebbe sapere…

4. Come definireste il “successo” per questa posizione?

La domanda vi permetterà di capire molto sul vostro futuro capo, ma anche di comprendere meglio le politiche aziendali per la valutazione e promozione degli impiegati.

5. C’è qualcosa che posso fare nei prossimi giorni per completare quanto detto oggi?

La risposta vi permetterà di capire quali follow up possono essere utili per favorire la vostra assunzione, ad esempio se è opportuno inviare degli approfondimenti. In generale fa capire all’intervistatore che ci tenete davvero. Che è poi il principale obiettivo di tutte queste domande.

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Oggi a Deejay chiama Italia Severgnini dà otto consigli per un futuro migliore

PC Ci fa piacere segnalare una bella opportunità per sentire Severgnini – di cui abbiamo così spesso parlato nel blog – discutere stamattina del suo ultimo saggio, Gli italiani di domani, con Linus e Nicola Savino nello storico programma in onda tutti i giorni dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 12.

Riflettendo su questo incontro mi sono resa conto che la grande passione che con la quale Patrizia e io seguiamo questi tre personaggi è dovuta anche al fatto c’è qualcosa ci accomuna a Beppe, Linus e Nicola: non è solo il fatto di essere più vicini ai 50 anni che ai 40, ma anche la passione per i giovani e il desiderio di condividere con loro quello che abbiamo imparato (dai successi e dagli insuccessi).

Severgnini nel suo ultimo libro dice: “I ragazzi non hanno il diritto il sognare; ne hanno il dovere”. Troppo spesso quelli della nostra generazione si affannano per toglierglielo, spero che gli otto consigli per un futuro migliore di Beppe li aiutino a riprenderselo.

Credere nei giovani, fargli capire che c’è qualcuno che ci tiene, può essere un modo per incoraggiarli a percorrere la loro strada con buon senso ed entusiasmo.

Il programma è visibile, contemporaneamente alla messa in onda, in streaming sul sito. In più lo si può guardare anche sul canale 9 del digitale terrestre e sul canale 145 di Sky. Viene inoltre replicato in versione “serale” dalle 22:30 su Deejay TV.
Questo è il link alla diretta streaming del programma: http://www.facebook.com/l/LAQHchxEnAQG9BLPI24mhyA9VRpU0mn4-quPLaprRY7OWgA/www.deejay.it/dj/tv/deejay_tv

Per concludere, dato che credo che ci siano delle coincidenze che hanno un significato, dedico questo post alla giovane amica che proprio ieri mi raccontava che quando va a trovare in Emilia i genitori parte sempre intorno alle 10.00 per ascoltare Deejay chiama Italia, che le fa compagnia durante il viaggio.

Lo faccio perché questa amica ha 26 anni, per amore ha deciso di trasferirsi a vivere su un piccolo lago lombardo, e, pur avendo studiato per 5 anni alle superiori lingue e contabilità, ha trovato solo, in anni di tentativi, un lavoro part time nel reparto gastronomia di un supermercato. Ora si ritrova ad essere assunta a tempo indeterminato (una fortuna rara!) ma a fare un lavoro che non le piace. Forse i consigli di Severgnini l’aiuteranno a buttare il cuore oltre l’ostacolo e trovare una porta che apra nuove opportunità. Perché se i giovani ottengono un futuro migliore, sarà migliore anche per noi.

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Stereotipi, ostriche e multinazionali

PB La scorsa settimana sono stata a Nantes (in Francia, a nord ovest, vicino all’oceano) per un incontro di lavoro.

Ho quindi allegramente parlato francese (è una lingua che adoro ma che parlo raramente) e ho mangiato molte ostriche (adoro anche quelle e le mangio più raramente di quanto non parli il francese).

Mi sono trovata a riflettere sui pregi e sui difetti della “italianità” poiché si trattava di valutare una possibile collaborazione tra una azienda/un marchio italiani  e una azienda/ una distribuzione francesi.

Molto convinta dei nostri punti di forza (un prodotto ricco di contenuti, una eleganza innata, un DNA sportivo e credibile, una creatività e una capacità di ascoltare il mercato addomesticandolo in ogni modo al buon gusto), mi sono trovata ad essere franca sui punti di debolezza.

Cosicché mi è stato detto che io, passionale, bruna, alta un metro e sessanta, solare e apollinea, non paio molto italiana (!) Nel senso che non racconto frottole, non tento di alterare la realtà, non prometto ciò che so che non manterrò, non cerco scorciatoie.

Un consiglio dunque a chi inizia a formarsi in una nuova professione: se potete scegliere l’azienda in cui fare il vostro primo stage o il vostro primo lavoro, la filiale italiana di una multinazionale straniera potrà essere una buona scuola di approccio internazionale.

Normalmente questa esperienza (che alla lunga diventa frustrante, vi avviso: se siete creativi e brillanti non resisterete a lungo) aiuta a creare una forma mentis cartesiana laddove per natura noi si tende a pulcinellare.

Essere obbligati a rendere conto alla casa madre, impone a noi, cuochi, sarti, artisti, di confrontarci con modelli rigidi, con numeri confrontabili, con dati verificabili, con teoremi che altrimenti ignoreremmo con filosofica leggerezza.

Alla lunga davvero stufa (una domanda che si fanno gli intelligenti che lavorano per le multinazionali è: ma quando smettiamo di descrivere il nostro business e cominciamo a fare business?)

Ma l’approccio francese, per esempio, (razionale e pedagogico) ha una attenzione davvero speciale alla formazione: è una bella opportunità per chi inizia a lavorare. Io so fare le previsioni di vendita grazie a una azienda francese per la quale ho lavorato tre anni.

Gli americani ti sfiniscono di richieste numeriche, quote di mercato, simulazione di scenari, lavoro di team.

Alla fine (dopo essere stati formati e abituati ad arrivare puntuali alla scadenze di “quarters”) scatta un sano anticorpo che ci impedisce di partecipare – senza cinismo – a team building che a noi paiono terapie di gruppo degli alcolisti anonimi.

Ma questi primi anni di rigore oltre alpino, ci avranno insegnato a confrontarci con realtà internazionali, a familiarizzare con linguaggi e processi culturali per noi non comuni, ad apprezzare un paio di dozzine di ostriche senza per questo sentirsi traditori del bollito misto con la mostarda o della parmigiana di melanzane (ché, sì,  siamo italiani, ma l’Italia  è lunga e variegata, e noi meno banali dei nostri stereotipi)

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