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Ricordi delle vacanze

PB  Quest’anno ho fatto vacanza in Egitto (giù, giù, quasi in Sudan) in un villaggio tra mare e deserto per ammirare (con maschera e boccaglio) la barriera corallina.

Mentre i turisti passavano il tempo in acqua a pancia in giù (fuori dall’acqua non era onestamente possibile sopravvivere) ustionandosi le spalle e pinneggiando, uno sparuto manipolo di giovani italiani si occupava del loro benessere.

Ragazzi tra il 19 e i 24 anni, in attesa di trovare il lavoro della loro vita in Italia o in un altrove dove non vivere in ciabatte infradito, lavoravano tra il palcoscenico e l’acqua, unendo a mio avviso una esperienza professionale  a una esperienza esistenziale che li renderà migliori.

Qualche caso mi è rimasto impresso e ve lo voglio raccontare.

Martina fa la biologa. Ha circa 23 anni e conosce tutti i pesci della barriera. Due volte al giorno (alle 11 del mattino e alle 4 del pomeriggio) accompagna i turisti a fare snorkeling. Li istruisce su come muoversi, come pinneggiare senza danneggiare il corallo. E poi parte nuotando e raccontando del pesce Pagliaccio nell’anemone, della murena nella tana, del pesce Leone, del Picasso, delle tartarughe.

Alla sera, dopo cena, per un’ora con le sue slides fa lezione sui coralli, sui pesci ossei, su quelli cartilaginei.

Benestanti professionisti e scalmanati bambini, ascoltano in silenzio incantati dalla sirena bambina, dalla sua professionalità e dalla sua grazia.

Silvia, licenziata da una palestra milanese in crisi di abbonamenti, ha poco più di 20 anni. In attesa di ritrovare il suo lavoro in palestra, fa lezione di fitness e acquagym alle signore in vacanza. Tutte tornano a casa più toniche e grate alla energica istruttrice per averle rimesse in riga.

Gianmarco, ballerino diciannovenne, è la piccola stella del villaggio. Lui fa il coreografo, balla, fa il cabaret. Piace a tutte le signore che hanno per lui attacchi di amore materno. Lo visitano se è malato (c’erano molti medici tra i turisti), lo filmano con la videocamera, gli danno consigli per il suo futuro. Lui sogna una vita speciale e diversa. Ma non lo fa dal divano di casa.

Camilla e Eugenio si occupano dei bambini. Sono i più belli, lei è la Fata, lui il Big Gim. Leggono fiabe e ballano la break dance. Veri idoli per i nanerottoli che li inseguivano adoranti tra la piscina e la spiaggia.

L’impressione che ho avuto da questa “generazione perduta” (come la ha definita Repubblica il 21 agosto dopo l’intervento di Mario Monti al Festival di Rimini) è stata di grande ammirazione.

A casa le cose non vanno bene. In attesa che si sistemino, giovani e coraggiosi, sono partiti per una destinazione piuttosto scomoda, per un lavoro dove si cambia interlocutori ogni 7 giorni, per sei mesi filati lontani da casa, per uno stipendio non milionario.

A me questi ragazzi sono piaciuti. E, superata la dissenteria, la malinconia, la nostalgia, si scopriranno più forti al loro rientro a casa. Non solo personalmente (ché saranno più solidi e autonomi), ma soprattutto professionalmente.

Da domani una esperienza così nei CV che mi toccherà di esaminare, varrà come punto di merito per le mie selezioni.

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Donne, multitasking e luoghi comuni

PB A metà agosto Paola ha scritto un post sul multitasking che mi ha dato il coraggio di ammettere pubblicamente: io non sono capace di fare bene tante cose in contemporanea.

Per anni ho letto che le donne sarebbero capaci di svolgere un numero elevato di attività in contemporanea con grande efficacia. Io no. Meno femminile delle femmine “normali”? L’incapacità di essere la   Dea Kalì  si univa ad altri indizi  inquietanti (le donne amano la casa? Io potrei vivere felice in un motel. Le donne hanno il senso della cura e dell’accudimento? Io sogno un valletto che si occupi di me full time). Forse il mio DNA è danneggiato.

Ora la scienza mi scagiona: il multitasking riduce la produttività.

E in effetti come al solito arriva lo studio che conferma quanto un po’ di buon senso aveva già indovinato: chi non sa che fare il bagnetto a un neonato e cuocere una bistecca in contemporanea aumenta i rischi che uno dei due elementi o anneghi o bruci?

Che se ci si infila la giacca mentre si lavano i denti, si arriva in riunione con un davantino di micropois bianchi imbarazzanti?

Che se scrivi una e mail sul black barry mentre fai la rampa dell’autostrada o ti schianti, o al meglio, infili così tanti errori che sembrerai un demente al tuo interlocutore?

Quindi, approfittiamo a piene mani dei vantaggi organizzativi che la rete ci dà nel reperire informazioni, tenere contatti, spedire messaggi,  ma prendiamo il tempo e soprattutto l’attenzione necessaria per fare una cosa per volta.

Se durante una riunione qualcuno dei miei collaboratori guarda la posta, o ha chiesto un permesso perché stiamo aspettando un messaggio urgente inerente all’argomento della riunione, oppure deve lasciare in tasca il BB: sono così rari i momenti in cui possiamo eviscerare tutti insieme un problema che è un peccato sprecarli facendo cose che possiamo fare dopo!

Le persone che lavorano con noi hanno diritto ad avere la totale attenzione per il periodo che abbiamo ritenuto opportuno dedicare loro: possiamo negoziare sulla durata, non sull’attenzione dedicata a una attività.

Vacanze di un mese o di una settimana? In ogni modo vacanze!

Al lavoro part time o con gli straordinari? Gli amici, i parenti, i compiti dei bambini aspetteranno la fine della giornata lavorativa!

Cena con le amiche di scuola? Non stiamo al telefono con il fidanzato!

Come è irritante sentire chi sotto l’ombrellone chiacchiera tutto il giorno di contratti e budget, così sono insopportabili i genitori che chiamano nonne e tate dall’ufficio ogni mezz’ora per sapere se il bimbo ha fatto la merenda.

Naturalmente ci sono delle eccezioni: Paola si è laureata lavorando (in agenzia)  e studiando (sulla metropolitana linea rossa). Non è forse mai scesa alla fermata sbagliata e ha passato persino l’esame di statistica. Ok, va bene. Posso però almeno dire che non c’entra con il fatto che è una femmina?

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Bentornati!

Street Chic

PB  Qualche tempo fa mi diceva Mariella Colavito, severa e generosa funzionaria di Manager Italia, a proposito di lavoro e organizzazione, che le aziende licenziano a luglio e dicembre. Assumono a settembre e gennaio.

Funziona un po’ come il cambio armadi o i buoni propositi dopo le vacanze.

Fine luglio è l’ultima spiaggia per mandare i cappotti in tintoria. Sono lì da marzo, quando avremmo voluto portarli, ma proprio nel momento in cui avevamo deciso, ha fatto così freddo che abbiamo rimandato. Poi ci siamo dimenticati e ora sono lì a ricordarci che se vogliamo affrontare l’autunno come si deve dobbiamo deciderci. Le riviste già ci suggeriscono il nuovo Street Chic, con giacche di lana color cammello da portare su maglie rigate.

A settembre dovremo pur comprare qualcosa che ci faccia sentire nuove, no? Fosse pure solo uno smalto con i colori delle castagne (nei periodi di crisi cala la vendita dell’abbigliamento, aumenta quella dei cosmetici: New look a minimo impatto sul portafoglio).

Le aziende fanno la stessa cosa. Sistemano i loro armadi tra giugno e luglio. A settembre prendono qualche cosa di nuovo.

Bisogna che per quel momento la vostra vetrina sia al massimo dello spolvero. I budget sono limitati, l’acquisto sarà ben calibrato in cerca del miglior prodotto.

Il vostro CV è in ordine? Il vostro profilo su Linkedin? Avete fatto un giro di chiamate ai vostri amici che hanno trovato un impiego interessante per sapere se nelle loro aziende si muove qualcosa che potrebbe fare al caso vostro? Una e mail al vostro prof per chiedergli un consiglio? Spulciato gli sportelli stage per vedere se c’è l’azienda dei vostri sogni che vi sta cercando?

E’ settembre fanciulli! Il vero capodanno (per lo meno in Italia dove agosto è ancora uno spartiacque importante tra il prima e il dopo). Bentornati e buona fortuna! Trampolino cercherà di essere il vostro alleato migliore per fare della vostra, la migliore vetrina.

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INTERVISTA A MATTEO ORLANDI BRAND MANAGER GIORGIO ARMANI

PC Matteo Orlandi si è laureato a Lugano, perché l’università offriva un corso di laurea in marketing e usava l’inglese come lingua ufficiale (opportunità che si sta valutando solo ora anche in Italia).

Matteo Orlandi

L’ho conosciuto che era il giovanissimo assistente marketing di un mio cliente, e anche in quel ruolo, necessariamente operativo, è riuscito a colpirmi per la sua precisione ed efficienza. Con una chiacchierata durante un pranzo di lavoro (che si svolgeva nel bar di una piscina pubblica, l’unico posto dove fosse possibile mangiare qualcosa nella periferia desolata di Agrate) ho scoperto – complice il contesto! – che era appassionato praticante di molti sport. Per questo, quando Patrizia mi ha chiesto di segnalarle un giovane product manager bravo e molto sportivo per il lancio della linea EA7 di Armani, non ho avuto dubbi che Matteo sarebbe stato perfetto (purtroppo la società mia cliente per la quale lavorava stava per cambiare proprietà, quindi sapevo di non creare problemi a nessuno favorendo un cambiamento che Matteo stava già sicuramente valutando).

A Orlandi, che quindi è da alcuni anni brand manager in Giorgio Armani, chiediamo innanzitutto perché pensa di essere stato scelto al tuo primo colloquio, cosa ha fatto la differenza?

Matteo Orlandi: “La sincerità. Al primo colloquio non sei mai preparato, ma mi sono presentato così com’ero: studente appena uscito dall’università e con poche esperienze sul campo. Ho messo in luce quelli che sapevo essere i miei punti di forza e quello che avrei voluto fare. Poi ho chiesto cosa cercavano, ed ho ascoltato tutto. Ricordo ancora la frase: sei disposto a viaggiare? I miei occhi si illuminarono.”

Trampolinodilancio:  “Cosa ti è servito di più nel primo anno di lavoro?”

Matteo Orlandi: “Ho avuto la fortuna di fare marketing, area dove le relazioni con le persone sono alla base. Oltre alle competenze universitarie, quello che ha contato di più è stato sapersi muovere a tutti i livelli: direttore, manager, colleghi, magazzino. L’università mi ha insegnato a parlare in pubblico, a fare presentazioni, ad avere idee e saperle raccontare.”

Trampolinodilancio:  “Cosa ti ha insegnato il tuo primo capo?”

Matteo Orlandi: “Il primo capo era il direttore trade marketing di una azienda di bicchieri. Non mi  ha insegnato molto in modo diretto, ma piuttosto ho osservato i suoi talenti. Era molto brava con i clienti, a trovare soluzioni per loro, fare prodotti ad hoc, lavorare sulle offerte e sui prezzi. Aveva uno spunto creativo per suggerire nuove collezioni e sapeva come dare al giusto cliente il giusto prodotto.”

Trampolinodilancio:  “Cosa ti ha insegnato il capo che consideri tuo mentore?”

Matteo Orlandi: “Da lui ho capito l’importanza dei numeri, del rigore, della sintesi. Si possono fare nel marketing tante cose, tutte belle e divertenti, ma è compito di chi fa questo mestiere trovare sempre il perché delle cose, dimostrarle con delle ricerche e portarle avanti con decisione. Ho visto anche cosa vuol dire fare scelte difficili perché giuste; ho imparato anche che non sempre ci sono soluzioni.”

Trampolinodilancio:  “Cosa vorresti aver studiato in più o di più nel tuo percorso scolastico?”

Matteo Orlandi: “Mi manca molto una competenza finanziaria e contabile. Durante gli studi è sempre stato per me il nodo più duro da sciogliere, ma ora manca un po’ la sicurezza su questi aspetti fondamentali.”

PB  Il brief datomi dal mio capo per trovare il product manager di EA7 era il seguente: giovane (il budget era basso e l’impresa necessitava una buona dose di inconsapevolezza) , bello (avrebbe dovuto lavorare direttamente con l’ufficio stile che appunto, sullo stile, è piuttosto intransigente), sportivo (no calcio, solo sport di nicchia, perché il calcio è monopolizzato dalle multinazionali e ha costi insostenibili), povero (cioè doveva essere affamato di successo, ambizioso, abituato a lottare per ottenere una posizione).

Matteo era indubbiamente giovane, di lineamenti delicati, faceva canottaggio. Non ho avuto cuore di chiedergli il conto in banca per verificare che fosse povero (anche le indicazioni del capo vanno filtrate). Quest’anno EA7 vestirà ufficialmente gli atleti Italiani durante le Olimpiadi 2012 di Londra. Se anche non era proprio povero povero, deve aver fatto un buon lavoro.

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La relazione che scaturisce dal fare

Rodolfo Dordoni

Rodolfo Dordoni (Photo credit: kartellpeople)

PB  Qualche settimana fa ho letto una intervistra a Rodolfo Dordoni , meraviglioso architetto e designer milanese.

Lo ho incontrato professionalmente (lui non si ricorderà certamente di me, come quei chirurghi famosi che dei pazienti si ricordano solo le patologie) una decina di anni fa in Dolce&Gabbana. Io invece me lo ricordo perfettamente (come quei pazienti che del loro  chirurgo ricordano ogni espressione e ogni sguardo).

Dunque, dicevo dell’intervista. Alla domanda della giornalista “Quali sono i progetti che ha più amato? Quali quelli che lei ritiene i più riusciti?” Dordoni risponde : “Amo le persone, non amo le cose. (…) I progetti che ho amato di più sono quelli che hanno generato un bel rapporto, duraturo, con le persone che li realizzavano con me. Conservo la relazione che scaturisce dal fare”

Ho trovato questa frase meravigliosa. Un designer famoso, che verrà ricordato per gli oggetti straordinari che ha realizzato, conserva tra i suoi progetti più riusciti le relazioni. Ma non quelle amicali  o mondane o sentimentali. Quelle che scaturiscono dal fare.

E il fare è legato al lavoro, alla professione, alla realizzazione di un progetto.

E prevede tempo, complicità, competenza, visione, umiltà, ambizione

Conserverei per voi che iniziate a lavorare alcuni consigli che reputo davvero preziosi:

–       un progetto non è quasi mai il frutto del lavoro solitario di un solo individuo: provate a pensare che le persone che vi troverete al fianco potrebbero essere degli ottimi compagni di viaggio, dei complici, dei consiglieri. Se ne avete la possibilità accompagnatevi a chi stimate, a chi è migliore, a chi vi somiglia o vi completa. Potrebbero scaturirne relazioni durature e importanti per tutta la vostra vita professionale.

–       Il “fare” , la capacità di sporcarsi le mani, di scendere fino agli aspetti più pratici e concreti di una idea, la rende realizzabile, credibile e sognabile (gli uomini professionalmente più validi che ho conosciuto, erano in grado di  generare una idea perché conoscevano la reazione dei materiali in fabbrica). Non siate mai pigri o supponenti: il fare rende il lavoro nobile e ha (soprattutto in certi ambienti della comunicazione) un salvifico effetto di concretezza.

–       Il tempo non va vissuto come un nemico da battere. Ciò che scaturisce da un lavoro lungo, laborioso, duraturo, spesso è ciò che è più prezioso: le scorciatoie possono essere eccitanti ma raramente producono soddisfazioni nel medio-lungo termine.

E se, nella propria vita professionale, si ha la fortuna di lavorare con qualcuno da conservare nel prezioso novero delle relazioni che scaturiscono dal fare, si può dire che sia valsa la pena fare un pezzo di strada insieme, anche a costo di essere ricordati come una sineddoche (come appunto il chirurgo si ricorda di voi come di una “ernia”, ma intanto vi ha tirato fuori dai guai).

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Ho cercato per tutto il paradiso la quota dove sta il tuo sorriso

Paolo Conte in Berlin

Paolo Conte in Berlin (Photo credit: Wikipedia)

PB Martedì sono stata al concerto di Paolo Conte a Villa Arconati.

Tra gli altri bellissimi pezzi, ha cantato Eden. Una strofa recita: ho cercato per tutto il paradiso, la quota dove sta il tuo sorriso.

Ecco qualcosa da portare con sé sempre al lavoro: il sorriso.

Quando si inizia a lavorare e si ha bisogno di tutto ( un consiglio, un permesso, una presentazione, qualcuno che abbia voglia di portarti a pranzo) non c’è migliore lasciapassare di un sorriso per vedere cadere le resistenze, vincere le indolenze, sopire i sospetti dei nuovi colleghi.

La gentilezza e il sorriso sono generalmente contagiosi e funzionano meglio di una password per forzare i primi livelli di resistenza.

Anche le lacrime sono in grado di annientare l’aggressività degli interlocutori, ma chi affiderebbe poi una responsabilità a chi non riesce a gestire le proprie emozioni? Efficaci in prima battuta, le lacrime (oltre a spalmare il rimmel) sono letali nel medio termine.

Il riso è aperto ma può essere irritante e spesso letto come sintomo di superficialità.

Sbellicarsi dalle risa in colloquio o in riunione è quasi peggio che addormentarsi. Io personalmente sono sospettosa di fronte all’allegrezza triste di chi ride troppo, in modo eccessivo e rumoroso. Tra i due mali preferisco il fragile che piange, rispetto allo sciocco che ride. In ogni modo a nessuno dei due affiderei la presentazione della collezione a un cliente importante.

Andando avanti nella carriera ci si accorge che il sorriso rimane una risorsa in grado di infondere serenità e fiducia. Spesso è sintomo di uno stile di management efficace, che non disperde energie, ma raccoglie le risorse e le indirizza naturalmente verso gli obiettivi.

Come effetto collaterale rende le nostre giornate più gradevoli e le relazioni più morbide e durature. Quasi quasi un paradiso, dove cercare la quota del tuo sorriso.

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Ognuno sta solo sul cuor della terra

Ragazza pensosa, sola in ascensore

Ragazza pensosa, sola in ascensore (Photo credit: Wikipedia)

PB  In un recente post di Paola, Paulo Bernini (Direttore creativo di Bitmama), a proposito della sua esperienza in Giappone, ha detto che laggiù ha imparato a stare da solo.

Io un po’ ho avuto freddo e un po’ mi sono sentita sola mentre leggevo (guardavo?) la scena e ho pensato che il commento non solo fosse bello e suggestivo, ma originale e pertinente per chi si avvia a una professione.

Imparare a sopravvivere soli è doloroso ma vitale.

Alle medie si va in bagno con la migliore amica, al liceo si inizia a fumare in tre (sempre in bagno), all’università si studia in gruppo, in gita si va con tutta la classe, in vacanza si parte in due (se si è innamorati) , in molti (se si spera di innamorarsi).

Poi arriva il momento di lavorare o di studiare – magari all’estero – in una città straniera.

Il mondo è diventato piccolo, le aziende locali cercano sbocchi internazionali, le multinazionali hanno filiali nei mercati locali.

I budget sono sempre più razionalizzati, nessuno si può più permettere di fare trasferte di gruppo, sono passati i tempi in cui, per presentare la nuova collezione a un cliente importante, partivano il marketing, il prodotto, lo stile, le vendite. L’ufficio viaggi organizzava la trasferta, procurava i biglietti aerei, prenotava l’hotel.

Ora, nella maggior parte dei casi, quello che prepara la valigia è da solo, in trasferta dovrà essere un po’ tutto (stilista e venditore), i voli se li è prenotati su internet e non dovrà avere paura (cioè avrà paura, ma dovrà fare finta di non averla) di essere a qualche migliaio di chilometri da casa, in un paese che conosce poco, per incontrare gente che non conosce affatto.

Io mi sono molto identificata nella sensazione di solitudine di cui parla Bernini: il disagio di mangiare da sola al ristorante, di orientarmi in città sconosciute, di riempire il tempo vuoto dal lavoro quando tutti i punti di riferimento familiari sono lontani.

Negli anni sono passata da baguette e camembert da sola in camera a scegliere sulla Lonely Planet ristoranti carini che mi somigliassero nei quali consumavo la cena leggendo un libro o scrivendo note sul mio diario (un diario è sempre una idea geniale: permette di fermare sensazioni altrimenti fuggitive e offre un meraviglioso riparo contro i seccatori).

Prima di partire cerco di avere il tempo di procurarmi una piantina  e di verificare la posizione del quartiere dove andrò, la presenza di qualche cosa di interessante in zona, di cui approfittare nel tempo libero.

Porto sempre un paio di scarpe comode, per potermi spostare a piedi, quando possibile, o addirittura in bici (a Copenhagen anche i business Hotel hanno il noleggio bici).

E poi ci sono sempre luoghi in cui, anche in giro per il mondo, io sento aria di casa: per me una chiesa cattolica (stesso profumo di incenso in tutto il mondo, sempre un altare in fondo alla navata), una bella libreria, un giardino pubblico. Altri tirano un sospiro di sollievo da Mc Donald o nel buio della sala di un cinema, oppure in piscina.

Ci sono trucchi e astuzie per sopravvivere alla malinconia dell’essere soli. Soprattutto per poi godersi la magnifica sensazione di avercela fatta, di avere conquistato un pezzo di mondo ma soprattutto un pezzo di sé stessi.

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Quelli del marketing se la tirano. E fanno bene

Cynar and Cynar Original

Cynar and Cynar Original (Photo credit: Wikipedia)

PB  Ultimamente,  parlando con il responsabile delle risorse umane di una nota azienda di moda italiana, si argomentava  di quanto in questo periodo di contrazione dei consumi, le ricerche del personale si siano focalizzate su figure commerciali piuttosto che di marketing.

Le aziende puntano su azioni di tattica per aumentare (o mantenere) i loro ricavi, piuttosto che spendere in fumosi – e costosi –  strateghi da collocare all’ultimo piano.

E un po’ non hanno torto se pensiamo che a creare lo stereotipo del fighetto del marketing che se la tira hanno contribuito molti personaggi più o meno inutili che assomigliano agli “stilisti milanesi”  parodiati da Elio nella pubblicità del Cynar. Simpatici a volte, ma sempre personaggi di contorno, che fanno colore e contribuiscono all’arredamento della show room quando tutto va bene e i budget paiono infiniti. Ma davvero non è più tempo (quando mai lo è stato?) di un marketing che si esaurisce in un Power Point e nella produzione di gadget originalissimi e carinissimi.

Eppure mi sento di difendere la professione. Quella vera e piena di contenuti. Che è vitale e non deve stare al terzo piano ma in ogni ingranaggio della macchina aziendale.

Se gli imprenditori italiani credono che essere strategici sia un lusso che oggi non possono permettersi sbagliano, e la sorte delle loro aziende  è la prova vivente dei loro errori.

Scegliere se puntare sul livello di servizio, sulla facilità di accesso (un negozio Intimissimi in ogni centro storico o commerciale d’Italia) o sull’esclusività, l’aspirazione a fare parte di un mondo ideale (Abercrombie, solo a Milano, solo con la coda), conoscere il valore del proprio marchio o del proprio prodotto, individuare quello che vuole un consumatore (un uomo può volere un parcheggio comodo fuori dal Brico, una ragazza una gamma infinita di smalti turchesi in piccolo formato da Kiko), intuire una opportunità e saperla cogliere, avere il naso per capirla quando non ci sono i dati e i tempi per saperla, non è un valore accessorio, non sono solo cavoli del brand manager. Sono quello che fa vivere e pulsare un’azienda.

Quindi se il marketing è solo di facciata e ignora il mercato, i fatturati, le idee e la intelligenza, non ha ragione di essere, non più di un centrino di pizzo in fondo alla madia. Ma se è quello vero, se si occupa dei prezzi sapendo che sta costruendo un posizionamento di brand (ma non ignora le esigenze di cassa), se si occupa di stile (ma sa che non tutti hanno 20 anni e pesano 48 kg) , se stampa un catalogo (ma non desidera abbattere una foresta per realizzarlo), allora è quel lavoro per cui vale la pena avere studiato, letto , viaggiato, chiacchierato, capito.

Quando questo tipo di markettaro incontra uno delle vendite, uno di quei draghi “che saprebbero vendere un frigo al polo nord” con il nodo grosso alla cravatta, allora dentro il suo cuore un po’ se la tira. Per me fa bene.

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In medio stat virtus

English: THE KREMLIN, MOSCOW. President Putin ...

English: THE KREMLIN, MOSCOW. President Putin being interviewed by the Italian newspaper Corriere della Sera. Русский: МОСКВА, КРЕМЛЬ. Интервью итальянской газете «Коррьере делла сера». (Photo credit: Wikipedia)

PB  Leggo sul Corriere della Sera del 18 maggio un articolo che riprende un pezzo di Sue Shellenbarger (editorialista del Wall Street Journal) sulle cinque tipologie di impiegati ammazza- riunioni: il Dominatore, il Complottista, il Divagatore, il Burlone, lo Scettico.

Articolo divertente e estremamente realista come ben sanno coloro a cui spesso è toccato partecipare a interminabili e inconcludenti riunioni di lavoro.

Nello stesso tempo però, come per i farmaci che sotto dosati sono inutili, sovra dosati avvelenano e nella giusta dose guariscono, anche queste tipologie umane infestanti hanno in nuce gli elementi che, nella giusta dose, fanno funzionare le riunioni e le aziende.

Il Dominatore, velenoso quando è prepotente e non lascia spazio alla espressione degli altri, è salubre quando tira le fila, ha la ledership e l’autorevolezza per trascinare la squadra. Non c’è nulla di peggio di riunioni che cominciamo quando si vuole, finiscono per stanchezza o perché è ora di pranzo, hanno un ordine del giorno disatteso e prendono direzioni variabili secondo il tempo o gli umori dei convitati.

Il Complottista, che a fine riunione vaticina la catastrofe alla macchinetta del caffè e lo Scettico che lancia dubbi epocali quando la soluzione pare ormai trovata, in piccole dosi sono quelli che mettono in luce i rischi e i punti di debolezza dei progetti, promuovendo lo sviluppo di piani di sostegno e messa in sicurezza nella previsione di possibili contrarietà (pioggia in caso di party all’aperto, brufolo sulla punta del naso la mattina del colloquio , sciopero dei mezzi pubblici il giorno degli esami)

Il Burlone e il Divagatore, non lasciati a ruota libera come se fossero sul palcoscenico di Zelig, possono allentare la tensione, cortocircuitare discussioni improduttive e consentire una visione periferica che può arricchire lo scenario con la percezione anche dei segnali deboli. Una battuta divertente è in grado di arrestare una sterile polemica da cui pare non si riesca a uscire. Un intervento che pare fuori tema può cambiare la prospettiva e far intravvedere un orizzonte migliore.

Io dovrei accompagnarmi con Scettico perché sono stucchevolmente ottimista (e anche piuttosto pigra), quindi non porto il cerotto in borsa anche se ho le scarpe nuove, non ho mai l’acqua in automobile perché tanto ci sono gli autogrill e non ho i contanti tanto c’è la carta di credito (una volta a Parigi ho perso il volo di rientro a Milano perché non avevo denaro per pagare il taxi, ero in ritardo perché non avevo previsto il traffico del venerdì sera in uscita dalla città, non avevo verificato che la macchina che avevo prenotato fosse dotata del POS: quanto ho desiderato in quel momento avere dentro di me almeno un piccolo pezzo di  Complottista!)

E voi siete in grado di dosare ciò che avete in abbondanza (per non essere indigesti) e di cercare nei colleghi e nei compagni di viaggio ciò che vi manca (per non essere insipidi)?

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INTERVISTA A NICOLO’ SABELLICO – DIRETTORE MARKETING NAUTOR’S SWAN

PC  Alla base del futuro nel lavoro, soprattutto in questo periodo di crisi, ci sono principalmente le relazioni: e non parlo solo dell’abilità nel mantenerle, ma anche dell’attitudine a entrare in contatto empaticamente con gli altri. Il successo di Nicolò Sabellico nasce anche dalla straordinaria abilità nell’entrare in relazione con i suoi interlocutori.

Dopo alcuni anni in Armani, dove ha iniziato nel Marketing e ha continuato nel Commerciale,  è oggi  il giovanissimo direttore marketing di Nautor’s Swan –  il produttore dei più prestigiosi yacht del mondo, del Gruppo Ferragamo.

Patrizia e io abbiamo conosciuto Nicolò quando sua sorella (nostra amica da sempre) mi ha chiesto, come favore, di fare una chiacchierata con il fratellino per aiutarlo a capire qual era la sua vera strada.

Nicolò, infatti, aveva cominciato a lavorare giovanissimo, parallelamente all’università, in una piccola azienda dove nel giro di pochi anni aveva fatto tutta la carriera possibile, rispondendo direttamente alla proprietà.

Quando l’ho incontrato la curiosità che esprimeva per il mondo del marketing, la sua voglia di capire e il suo entusiasmo sono stati talmente contagiosi che quando proprio il giorno dopo (il fattore “c” è sempre importante!) Patrizia mi ha chiesto di segnalarle un mio studente per uno stage le ho invece proposto di incontrare Nicolò, che è poi stato scelto.

Sabellico mi ha rilasciato l’intervista dal terminal di un aeroporto, in partenza per Mosca, insieme a Ferragamo, per incontrare un ministro russo, che sicuramente saprà conquistare con il suo sorriso e la sua genuina voglia di stabilire un contatto.

Trampolinodilancio:  Perché pensi di essere stato scelto al tuo primo colloquio, cosa ha fatto la differenza?

Nicolò Sabellico: E’ stato molto importante essere sincero e trasparente ma sicuro e determinato; chiaramente mi riferisco alla sessione di colloqui in Intai  (divisione di Armani) prima con Patrizia e poi con il perfido e temuto Ing. Fanto. Fantò aveva la fama del cinico licenziatore… una figura simile al Duca Conte Barambani. L’ultimo colloquio con Fantò è stato determinante nell’ultima fase , con questo scambio di battute: “Sabellico, ma se lei dovesse scegliere tra…”  io non avevo neppure capito la domanda, così dopo una pausa di riflessione ho risposto: “ Senta, io andrei in ginocchio dalla Bolzoni a chiedere di spiegarmi la sua domanda  che francamente non ho minimamente capito”. Lui mi ha risposto: “Risposta esatta Sabellico, lei è pazzo ma mi piace, quando cominciamo?”

Trampolinodilancio:  Cosa ti è servito di più nel primo anno di lavoro?

Nicolò Sabellico: Ordine, disciplina, gestione del tempo, gestione delle priorità

Trampolinodilancio:  Cosa ti ha insegnato il tuo primo capo?

Nicolò Sabellico: Correttezza, educazione e rispetto

Trampolinodilancio:  Cosa ti ha insegnato il capo che consideri tuo mentore?

Nicolò Sabellico: Mi ha fatto capire che il lavoro, e in particolare il marketing, è prima di tutto buon senso , e il buon senso si ottiene dalla curiosità per tutto.

Trampolinodilancio:  Cosa vorresti aver studiato in più o di più nel tuo percorso scolastico?

Nicolò Sabellico: Le lingue straniere… non saperle ( molto bene) rappresenta un grave ostacolo.

PB Per chiudere l’intervista, aggiungerei, che il Sabellico era energetico e ipercinetico (caratteristica utile in alcuni ambienti lavorativi dove la nobile indolenza ha bisogno di un’iniezione di plasma), seducente con uomini e donne, gentile con le secchione della contabilità e le vampire da show room. Aveva la freschezza della pietra grezza. E le potenzialità di un sofisticato gioiello. Materiale interessante per una azienda a cui interessa investire sulle risorse umane.

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