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Che cosa ci ha insegnato il sig Armani?

PB In questi giorni, proprio nell’anno del cinquantesimo anniversario del suo marchio, il Sig Armani ci ha lasciati.

Mille messaggi si sono accavallati tra i colleghi, gli amici che hanno lavorato con lui, una comunità variegata, sparpagliata, che si è ritrovata improvvisamente coesa sotto il minimo comun denominatore di avere lavorato per Giorgio Armani.

Tralascio i molti pensieri a riguardo (forse lui avrebbe apprezzato maggiormente certi silenzi piuttosto che alcune inevitabili banalità) ma ci sono alcuni appunti che vorrei condividere con i lettori del blog, i ragazzi che si affacciano al mondo del lavoro.

La puntualità e la preparazione.

Il sig Armani revisionava ogni giorno decine di progetti, approvando tutto. Un tacco, una pralina di cioccolato, un ascensore in cristallo per il negozio di Tokio. Ti ritrovavi così in fila (tu con il tuo coso da far approvare) tra designer delle calzature donna, il pasticcere e il famoso architetto. La sua giornata aveva tempi scanditi in modo rigoroso.

Una delle mie prime volte in azienda (ero stata assunta da pochi mesi) avevo il progetto del corner Emporio Armani underwear per La Rinascente da fargli approvare. Rendering, pianta, contenimento, materiali.

Dove mi sarei sistemata? Dove riceveva? Quanto tempo avrei avuto per argomentare il mio progetto?

Scoprii che il mio spazio era il davanzale di una finestra (in Borgonuovo le finestre sono grandi, ma insomma era pur sempre un davanzale) allo sbarco dell’ascensore. Il sig Armani avrebbe dedicato al mio progetto il tempo di passare dalla porta del lift alla sala riunioni (non proprio un incentivo alla mia autostima). Cinque minuti. Corner bocciato. Per consolazione anche la pralina con il chichinger (quella del pasticcere) è saltata, in meno di un minuto. Forse il tacco ce l’aveva fatta.

Da lì ho capito che avrei dovuto essere più puntuale (almeno un minuto lo ho sprecato aprendo la pianta e tirando fuori i materiali: avevo usato il 20% del tempo a mia disposizione). E più preparata sul luogo e sui modi in cui si sarebbe svolto l’incontro. Quando ti trovi per la prima volta ad affrontare un appuntamento importante, non devi arrivare 10 minuti prima. Magari devi arrivare un’ora prima per avere il tempo di esplorare lo spazio, rivalutare la tua presentazione (se hai 3 minuti anziché 30 minuti, devi eliminare le premesse e arrivare al sodo a razzo).

Il timing

Lo spettacolo viene bene se tutti hanno fatto la loro parte. I tempi, come quelli del teatro, sono la chiave. Quando si apre il sipario devi essere perfetto. O almeno lo devi sembrare dalla platea. Tinture a pentolino, t-shirt dipinte a mano perché gli impianti di stampa non sono pronti, tessuti a valere, capi recuperati dal magazzino e modificati in sartoria, cappelli spruzzati di vernice in giardino per correggere il colore della paglia… ad un certo punto il meglio è nemico del bene: si sfila, l’abito deve essere indossato da una modella e non può essere in sala stiro, in tintoria o sul tavolo del modellista.

La curiosità e l’umiltà e il carisma

La moda è una community con pochissime regole scritte e milioni di regole non scritte. Quando entri devi essere invisibile, non fare rumore, osservare chi ne sa più di te, capire come muoverti. Come vestirti (sembra una banalità ma a volte addobbarsi del marchio per cui lavori come se andassi a una festa è peggio che essere vestiti Uniqlo).

Come comunicare con lo stilista, come gestire i feed back di vendita, quali sono i dati sensibili, quali le trasgressioni ritenute divertenti, quali quelle tabù. L’understatement paga (quasi) sempre. Spesso il carisma si esprime a bassa voce più che nelle urla (anche quelle metaforiche).

Il sig Armani è sempre stato puntuale, ha aperto il sipario (anche a platea vuota il giorno in cui Milano ha chiuso per covid, anche senza la sua presenza fisica quando a Parigi ha sfilato Privé mentre lui non poteva lasciare la sua stanza) e ha sempre parlato a bassa voce.  Per ascoltarlo intorno si faceva il silenzio. Ora questo silenzio ci tocca riempirlo delle sue parole di ieri e di tutto quello che abbiamo imparato da lui.

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Quando il genio non esclude l’empatia

PC Sono rimasta molto toccata, come tanti italiani, dalla notizia che Oliviero Toscani ha una malattia incurabile e dalla lucidità e il coraggio con i quali comunica la notizia nell’intervista apparsa qualche giorno fa sul Corriere della Sera. Mi ha poi fatto riflettere – ma non sorpreso – la sua reazione sinceramente stupita all’ondata di affetto che lo ha circondato dopo l’uscita della notizia, che conferma la sua grande e sincera componente umana.

Io sulla sinistra, due colleghi di Y&R in centro e Oliviero Toscani che fa una faccia buffa a destra. Poi, certo, il canguro…

Ho avuto la fortuna di conoscerlo e lavorare con lui per uno scatto fotografico commerciale per la Canguro (scarpe tipo Superga), una campagna che non ha certo lasciato il segno nelle coscienze della collettività e per la quale era probabilmente sprecato. Ma anche in quel caso mi ha colpito la sua capacità empatica di entrare in contatto con le persone più diverse per riuscire a realizzare la foto di cui aveva bisogno. Toscani era già così famoso (per quello lo avevamo scelto) che per qualsiasi modello era un onore solo il poter dire di aver lavorato per lui: ogni sua indicazione era un ordine che veniva immediatamente eseguito. Nel casting, però, c’era anche una bambina di cinque anni, alla quale doveva chiedere di salire nuda su un canguro a misura reale, ricoperto di un pelo apparentemente ispido che ricordava il più possibile l’originale (erano altri tempi, ma non ricordo fosse stato scuoiato un vero canguro per farlo…). La bimba piangeva e si rifiutava di farsi issare sul canguro. Toscani le parlo da solo, la fece ridere, le permise di salire prima insieme ad un altro modello e alla fine riuscì ad ottenere una bellissima immagine di una bambina felice e spensierata.

Per questo, anche se lui afferma nell’intervista che vorrà essere ricordato per il suo impegno, io nel mio piccolo lo ricorderò per la leggerezza e l’empatia che solo le grandi donne e i grandi uomini sono capaci di utilizzare quando è necessario.

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Shooting fuori porta

PB In show room non c’è spazio per scattare. Tutti i piani sono full per la campagna vendite. Clienti, modelle, venditrici, visual, area manager. Uomo e Donna in contemporanea. Collezioni sontuose che non finiscono più.

Ho visto una vestierista fare una breve call dal bagno del back office, per l’occasione trasformato in piccolo privé compreso di grucce, codici, struttura di collezione. Mancava solo la scrivania di Napoleone, quella portatile, che montava nel campo di battaglia.

Non c’è un centimetro disponibile per il lavoro sporco. E gli scatti per la CV di gennaio dove li facciamo?

Si va in campagna: allestiremo un set fotografico in Industria.

La partenza da Goldoni fa già un po’ gita: ci si trova alle 8 in ufficio e il fotografo fa anche da driver. Si caricano i fondali, le macchine fotografiche, i computer, l’assistente, la vestierista.

Quando arriviamo lo spazio è pronto. Tutto bianco e tranquillo. La statura media dei lavoratori in fabbrica è standard. Non sali in ascensore con bronzi di Riace in canottiera, diretti al terzo piano per trucco e parrucco. Né con modelle infinite che ondeggiano su tacchi vertiginosi.

Ci parte un attacco di autostima poderoso: sono tutti alti come me, indossano scarpe da ginnastica, felpe morbide e pure il camice bianco se si dirigono in sartoria.

Mi sento anche belloccia va là. Sensazione quanto mai improbabile in Goldoni, dove lo standard va da Monica Bellucci in su.

Dove sono le foto dello storico? Dobbiamo recuperare la cesta delle scarpe da fotografare, che sono ancora in Ufficio Prodotto! Lo troviamo un pannello in polistirolo? E gli spilli per fissare il nastro di un marsupio? Serve un foglio bianco per schermare il riflesso di una fibbia! E un pennarello rosso per segnare i capi scattati!

Mettiamo un segno sulla base del limbo per posizionare le sneackers sempre nella stessa posizione (è come a teatro! Con il segno sul palcoscenico per gli attori!)

Tutto molto pratico, operativo, manuale.

Il fotografo (tennista, per altro) è gentile, esperto, sorridente, problem solver.

La vestierista (giovane e carina, lei sta bene anche in Goldoni) è veloce, curiosa, capace.

Mi sento un po’ in uno di quei film americani in cui il cinico manager eredita per caso un podere in Provenza e poi pigia il vino e buca con l’Apecar e si innamora della barista del borgo (che in realtà è la castellana ma hippy e bella come Brigitte Bardot) e diventa buono e gentile.

Nel film non si vede se dopo tre settimane sull’Apecar scassata il manager rimpiange la Tesla . Io lunedì torno in Show Room. Ma lo shooting fuori porta mi ha messo di buon umore. La mensa è così esotica rispetto alla Sissi o al Pandenus. Mi è mancato solo il barista/hippy/aristocratico perché il caffè lo abbiamo preso alla macchinetta. Vabbè Lonate Pozzolo non è la Provenza.

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Buon Compleanno Trampolino!

PB Nel marzo del 2012 io e Paola abbiamo inaugurato il nostro Bog.

Venivamo dalla crisi del 2008 (crollo delle borse, crollo dell’occupazione), avevamo figli alle medie e desiderio di dare consigli con leggerezza e profondità (si, pare un ossimoro, ma si può essere concreti e sognatori ad un tempo) ai giovani che si avventuravano nel mondo del lavoro.

Oggi sono passati 10 anni, abbiamo figli al liceo (o alle prime esperienze professionali) e i ragazzi hanno ancora bisogno , tra virus e conflitti, di avere uno sguardo progettuale sul futuro e magari di qualche buona dritta per non scoraggiarsi.

Io e Paola siamo ancora qui. Io sempre a occuparmi di Moda, lei sempre tra Food e Comunicazione.

Così dibattiamo al telefono , tutti i giorni driblando il traffico (io da Milano sud, lei per Milano nord) di Metaverso, di Dark shop, di tendenza alla frugalità e di stagisti super preparati. Di colleghi con crollo nervoso, di capi a volte visionari e a volte no. Parliamo delle lezioni al Master, del fenomeno delle grandi dimissioni (il Big quit americano che sta arrivando anche da noi) ma anche di scarpe (io Mary Jane, Paola stivali: due scuole di pensiero) e pesto genovese.

Con la scusa delle riunioni di redazione, anche quando scrivere diventa difficile (perché non si ha tempo, o voglia, o ispirazione) ci scambiamo pensieri e opinioni, consulenze professionali sottobanco e molto, molto altro.

Non so se Trampolino abbia aiutato i nostri lettori. Ma a noi, amiche per sempre, è servito come scusa , colla, svago, salvagente, motivazione. E’ diventato un pezzo della nostra amicizia. Auguri Trampolino, Buon Compleanno!

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Come NON scrivere una lettera di accompagnamento al curriculum vitae

PB la settimana scorsa ho ricevuto per e mail un curriculum. Come era? Per quale posizione? Non lo so perché non ho aperto l’allegato (quindi se per caso la candidata si riconosce nell’imputata di questa e mail ci può riprovare perché non la riconoscerei).

Ecco, copiata pari pari, la lettera che ho ricevuto:

Buongiorno,

vi invio il mio cv sperando possa trovare il vostro interesse.

Sto cercando una società che mi permetta finalmente di poter esprimere appieno il mio potenziale, una società che apprezzi fino in fondo l’impegno e la dedizione che metto ogni giorno nel mio lavoro.

Spero siate voi.

Io sono pronta.

Ed ecco perché questa introduzione non va bene:

1)      Quando scrivete a una azienda dovete comunque (anche se non conoscete il nome di battesimo) indirizzarvi a una persona che ha in azienda una funzione (il Direttore Marketing, il Direttore del Personale, il Direttore Generale) e non lasciare il buongiorno a galleggiare nel vuoto. Per altro, con una telefonata al centralino dell’azienda, è di solito piuttosto semplice conoscere il nome di chi vorreste leggesse la vostra e mail.

2)      Per quanto sia apprezzabile la brevità dell’introduzione, cercate di far almeno intuire cosa siete capaci di fare (Marketing? Pubblicità? Stile?Contabilità? siete una esperta ricamatrice? Una modellista del bambino? Una laureata in scienze della comunicazione?)

3)      Nel corpo della lettera, la nostra esigentissima candidata pretende di trovare una società che le permetta di esprimere appieno il suo potenziale e anche che la apprezzi fino in fondo.  Sono dolente di informarvi che queste sono richieste che si possono fare al proprio analista o al proprio allenatore (tutta gente che va remunerata) o al massimo al proprio fidanzato, non a qualcuno che dovrebbe pagarvi uno stipendio e che vorrebbe che voi lavoraste perché il marchio, il business, il prodotto esprimano appieno il loro potenziale.

4)      Quella parolina “finalmente” infilata in mezzo alla frase (“…una società che mi permetta finalmente di poter esprimere…”) fa intuire che fino ad ora non siate stati adeguatamente apprezzati. E che vi lamentiate dell’azienda presso la quale avete lavorato fino ad ieri. La prima reazione di chi legge è una istintiva solidarietà con chi ha dovuto, povero lui, gestire fino a ieri le vostre esagerate aspettative. E il desiderio di fuggire e archiviare la e mail è fortissimo.

5)      La chiusa ad effetto: “Spero siate voi. Io sono pronta” acuisce l’ansia da prestazione: lei è pronta, io no.

Ecco, molto semplicemente, cosa avrebbe potuto scrivere la nostra candidata:

Gentile Dottoressa Bolzoni, [evitare abbreviazioni: non state scrivendo un telegramma né incidendo una tavoletta di cera, quindi perché risparmiare su un paio di letterine?]

le [evitare la maiuscola “Le”, che è ridondante e onestamente obsoleta]

invio il mio cv sperando che possa trovarlo di suo interesse.

Sono una giovane stilista particolarmente appassionata di sport [oppure qualcos’altro: dite quel che sapete fare]

e credo che potrei dare un buon contributo per il successo [qui l’accento è posto su quello che voi potete fare per l’azienda, non su quella che l’azienda può fare per voi]

di xxxx [mettere il nome dell’azienda eviterà di dare l’impressione che abbiate fatto spamming su tutte le società della città],

dato che sono volonterosa, attenta e costante [spiegare brevemente perché un selezionatore dovrebbe incontrarvi è sempre buona cosa].

Avendo un contratto presto in scadenza [anziché lo scenografico: “io sono pronta” fate comunque intuire la vostra disponibilità in tempi rapidi],

potrei da subito essere disponibile.

Mi piacerebbe poterla incontrare anche solo per un breve colloquio. [l’impegno che chiedete non è di farvi felici per sempre, ma solo di trovare una mezz’ora per scoprire cosa sapete fare]

Cordiali saluti e a presto

La lettera di accompagnamento deve essere breve, efficace, arrivare sul tavolo di chi vi dovrebbe assumere come il messaggero che porta in allegato la soluzione di un problema: voi e il vostro talento siete una opportunità, non una tassa per chi vi deve valutare, non spaventatelo!

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Le domande da non fare mai (ma che ci facciamo sempre)

PB  Non vorrei che pensaste che io e Paola fossimo due bacchettone. Noi ci facciamo normalmente delle domande allucinanti mentre facciamo un colloquio (e così i nostri amici). Semplicemente non lo confesseremo mai!

Così vi prego di immaginare cosa passa per la mente del nostro candidato /a ideale , con camicia bianca, sorriso rispettoso, timido quanto basta, disinvolto quanto basta, mentre conduce il suo colloquio.

Tutto questo non deve emergere mai (neanche sotto tortura) ma succede là,  dentro la piccola testolina ricciuta

Partito da casa con un anticipo pazzesco, arriva al pelo e parcheggia ad un costo al di fuori della umana accettazione (strisce blu piene, c’era solo il silos con carotaggio in sito archeologico), quindi già mentre cammina verso il colloquio si fa domande politicamente scorrette:

–          Ci sarà una metropolitana comoda? Meglio la gialla che è più pulita…

–          Saranno fiscali sul ritardo? E se arrivi 5 minuti dopo ti tolgono mezz’ora?

–          Nell’ascensore avranno le telecamere? Oppure posso sistemarmi capelli, denti, il collo della giacca?

–          Quella della reception è mostruosa e si mangia le unghie. Saranno tutti così?

–          Quello che mi sta intervistando è un figaccione spaziale. Sarà sposato? Sarà gay? Sarà un lumacone? Non so cosa preferire

–          Potrò fare le ferie ad agosto? So che è da idioti perché tutto è più costoso, ma Erri può solo ad agosto

–          Io il mercoledì ho Zumba e devo assolutamente uscire per le 18,15. Glielo dico?

–          Non sopporto chi mangia la banana a mezza mattina in ufficio. Glielo dico?

–          Odio l’aria condizionata. Glielo dico?

–          Ma come mi devo vestire? Se metto la cravatta e tutti hanno la polo? Se metto le sneackers e tutti hanno i tacchi? Glielo chiedo?

–          C’è lo sconto dipendenti per comprare il campionario?

–          C’è un baretto comodo sotto l’ufficio perché odio il caffè della macchinetta?

–          A quanto ammonta il ticket restaurant?

–          E soprattutto: gli stagisti hanno il ticket restaurant?

–          E soprattutto: gli stagisti hanno SOLO il ticket restaurant?

–          Fanno corsi di inglese, origami, massaggi per i dipendenti?

–          Ma qui quanto mi pagheranno?

–          Ci sarà un parrucchiere vicino all’ufficio? Dove andare in pausa pranzo?

–          Chissà se il venerdì , d’estate, fanno mezza giornata come nelle assicurazioni?

–          Avranno un open space o uffici separati?

–          Si viaggerà in Magnifica Alitalia o con Easy Jet?

–          C’è una doccia se uno volesse arrivare in bici e darsi una rinfrescata?

–          Si può parcheggiare dentro, la bici?

Questo è solo il campionario di base. Tutti si chiedono in cuor loro cose che farebbero accapponare la pelle a qualsiasi selezionatore di personale. La differenza tra l’essere assunti e l’essere messi alla porta sta nella decisione di non fare queste domande. Ma di scoprire al più presto (con altri mezzi) le risposte. Avrete così chiesto al vostro futuro capo, in quale momento ha avuto la geniale idea della nuova strategia di comunicazione (questione di cui onestamente non vi frega nulla) , ma saprete che lì si può arrivare con il metrò, che esiste una dinette dove hanno anche il Nespresso, che quella della reception era una interinale e che al piano di sotto c’è un’agenzia di modelle.

Potete accettare il posto

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Stereotipi, ostriche e multinazionali

PB La scorsa settimana sono stata a Nantes (in Francia, a nord ovest, vicino all’oceano) per un incontro di lavoro.

Ho quindi allegramente parlato francese (è una lingua che adoro ma che parlo raramente) e ho mangiato molte ostriche (adoro anche quelle e le mangio più raramente di quanto non parli il francese).

Mi sono trovata a riflettere sui pregi e sui difetti della “italianità” poiché si trattava di valutare una possibile collaborazione tra una azienda/un marchio italiani  e una azienda/ una distribuzione francesi.

Molto convinta dei nostri punti di forza (un prodotto ricco di contenuti, una eleganza innata, un DNA sportivo e credibile, una creatività e una capacità di ascoltare il mercato addomesticandolo in ogni modo al buon gusto), mi sono trovata ad essere franca sui punti di debolezza.

Cosicché mi è stato detto che io, passionale, bruna, alta un metro e sessanta, solare e apollinea, non paio molto italiana (!) Nel senso che non racconto frottole, non tento di alterare la realtà, non prometto ciò che so che non manterrò, non cerco scorciatoie.

Un consiglio dunque a chi inizia a formarsi in una nuova professione: se potete scegliere l’azienda in cui fare il vostro primo stage o il vostro primo lavoro, la filiale italiana di una multinazionale straniera potrà essere una buona scuola di approccio internazionale.

Normalmente questa esperienza (che alla lunga diventa frustrante, vi avviso: se siete creativi e brillanti non resisterete a lungo) aiuta a creare una forma mentis cartesiana laddove per natura noi si tende a pulcinellare.

Essere obbligati a rendere conto alla casa madre, impone a noi, cuochi, sarti, artisti, di confrontarci con modelli rigidi, con numeri confrontabili, con dati verificabili, con teoremi che altrimenti ignoreremmo con filosofica leggerezza.

Alla lunga davvero stufa (una domanda che si fanno gli intelligenti che lavorano per le multinazionali è: ma quando smettiamo di descrivere il nostro business e cominciamo a fare business?)

Ma l’approccio francese, per esempio, (razionale e pedagogico) ha una attenzione davvero speciale alla formazione: è una bella opportunità per chi inizia a lavorare. Io so fare le previsioni di vendita grazie a una azienda francese per la quale ho lavorato tre anni.

Gli americani ti sfiniscono di richieste numeriche, quote di mercato, simulazione di scenari, lavoro di team.

Alla fine (dopo essere stati formati e abituati ad arrivare puntuali alla scadenze di “quarters”) scatta un sano anticorpo che ci impedisce di partecipare – senza cinismo – a team building che a noi paiono terapie di gruppo degli alcolisti anonimi.

Ma questi primi anni di rigore oltre alpino, ci avranno insegnato a confrontarci con realtà internazionali, a familiarizzare con linguaggi e processi culturali per noi non comuni, ad apprezzare un paio di dozzine di ostriche senza per questo sentirsi traditori del bollito misto con la mostarda o della parmigiana di melanzane (ché, sì,  siamo italiani, ma l’Italia  è lunga e variegata, e noi meno banali dei nostri stereotipi)

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Intervista a Elio Fiorucci

PB  Vi ricordate la promessa di intervistare Elio Fiorucci? Ci siamo riuscite!

Mentre leggete, immaginate suoni e atmosfera: lui, carismatico e calmo, parla con un microfono che tiene stretto al petto. Si muove poco e sta seduto (diciamo: il contrario dell’imbonitore televisivo che si agita magnificando pentole e materassi).

Non alza la voce.

I suoi occhi brillano e saltano per tutta la sala, per tutti quelli che stanno lì ad ascoltarlo.

La voce è bassa eppure nessuno perde una parola.

Con noi, per voi giovani talenti, parla di rapporti umani, di fiducia, di molteplicità, di passione, di coraggio, di innovazione, di autenticità. Non conosce tutti i vostri nomi. Ma pare dagli occhi (che ridono? che sanno? ) che queste parole le abbia dette proprio per ognuno. Almeno così è parso a me e Paola che – ça va sans dir – siamo ormai perdutamente innamorate.

Trampolinodilancio: Durante il suo speach da Robilant & Associati ci ha colpito la sua definizione del mercato come “atto d’amore”, inedita definizione per un concetto, quello di mercato, che viene di solito o idolatrato o demonizzato: ci spiega la sua idea di mercato? E dove la vede realizzata?

Elio Fiorucci:  In ogni città esistono i mercati che non hanno mai perso il loro fascino a favore della Grande Distribuzione. Il mercato come dicevo non è solo il luogo delle merci ma è anche il luogo dell’incontro con  chi le merci le produce o le sceglie personalmente, per cui si instaura un rapporto umano che prevede la fiducia e tante altre bellissime sensazioni che si ottengono solo con lo scambio tra gli uomini.

Trampolinodilancio : A un certo punto della sua vita lei ha dovuto cedere il marchio Fiorucci. Che consigli darebbe a chi, sul lavoro, deve misurarsi con realtà dolorose di cambiamento?

Elio Fiorucci: Non avere una sola passione ma capire che esistono tante cose da vedere o da fare che non possono ridursi in una sola esperienza

Trampolinodilancio : A proposito dell’importanza di “andare a bottega”: quali “botteghe“ oggi consiglierebbe a un giovane che vuole iniziare a lavorare? Quali i maestri da seguire? I modelli da cui imparare? Quali luoghi da frequentare?

Elio Fiorucci:  E’ impossibile descrivere questi luoghi, li puoi trovare in una stradina secondaria o addirittura in qualche piccolo paese perchè lì senti che si esprime la personalità. Quelli che scelgono inconsciamente o consciamente di fare solo quello che amano. Ci sono gli appassionati di motociclette e gli appassionati di fiori, se li conosci hanno tutti la stessa attitudine che si chiama passione.

Trampolinodilancio : Tutti riconoscono le sue doti eccezionali di talent scout: Lei come riconosce un talento?

Elio Fiorucci: Per il coraggio di fare una scelta innovativa e questo può avvenire in qualunque categoria di professioni.

Trampolinodilancio : Che consiglio darebbe a un giovane che deve affrontare un colloquio di lavoro?

Elio Fiorucci:  Essere se stesso, non essere timido perchè la timidezza a volte è confusa con la mancanza di capacità.

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I LOVE FIORUCCI

PB Ieri, presso la Robilant e Associati, nell’ambito di Talent Almanack, Elio Fioruucci si è raccontato.

Partendo dalla sua esperienza di curioso outsider in viaggio tra Londra, New York, Milano e Los Angeles (con escursioni in Messico e in molti altri altrove) ha tracciato la storia dei suoi negozi e delle sue performance che si sono rivelati poi modelli sperimentali per repliche seriali.

Dall’invenzione della formula della concession (ora in uso nella maggior parte dei Grandi Magazzini europei), alla collaborazione di artisti geniali per creare l’atmosfera dei suoi negozi (da Madonna a Basquiat, da Mendini a Warhol) ha aperto strade che nessuno aveva immaginato e creato modelli che rimarranno codificati come memorabilia per tutti i nuovi retailer.

Come fa a essere così divertente e geniale? Perché ci è piaciuto così tanto?

Uno straordinario mix di Volontà, Divertimento e Amore (sono le parole che ha usato più spesso) per una visione del mercato come atto d’amore: creare e cedere un prodotto come atto di felicità.

Io e Paola (a lei Elio ha anche baciato la mano e io mi struggo di gelosia) siamo innamorate. Speriamo di riuscire a intervistarlo per voi nelle prossime settimane. Anche se – questo sia chiaro – può darvi consigli su come essere felici lavorando, non su come diventare ricchi: lui non ci è riuscito!

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Il bello di dire SI’

PB  Recentemente mi sono imbattuta in uno di quegli articoli (tipici dei magazine femminili) che spiegano come imparare a dire NO.

Dire NO per ricavare tempo per sé, per fare carriera, per migliorare il proprio lavoro.

Come se il dire troppi SI’ fosse cosa da donnicciole, incapaci di pianificare con virile determinazione la propria carriera.

Eppure io ho sotto il naso esempi di successo professionale di chi forse ha esagerato con i SI’ senza calcolare bene le conseguenze, senza calibrare con cura gli svantaggi e i vantaggi, senza quantificare nel dettaglio le conseguenze. Persone che hanno cambiato il loro ruolo in azienda perché è stato loro riconosciuto un nuovo status dopo che se lo erano già conquistato sul campo (una modellista diventata stilista perché con la scusa della vestibilità aveva creato un modello poi divenuto best seller, un Area Manager diventato Direttore Vendite perché tappava i buchi delle zone scoperte con generosità e efficacia, un Marketing Manager che si è preso anche il Prodotto e poi è diventato Marketing Director a furia di elargire consulenze ai colleghi).

E poi invece vedo molti esempi di frutti avvizziti prima di essere maturati, grazie a tutti i loro NO, alle riserve di fronte ai rischi, alla misurazione dei mai sufficienti vantaggi. Con il risultato di rimanere immobili sulle proprie posizioni, pieni di meticolosa e sterile intelligenza.

Credo che di fronte al rischio (di non vedere riconosciuto il proprio lavoro, di non essere pagati abbastanza, di fare troppo in cambio di poco) sia preferibile abbondare in fiducia che in prudenza.

Anche la natura mi pare segua lo stesso esempio (un sacco di uova perché nasca un pesciolino, un sacco di km nella savana per trovare una valle lussureggiante, un sacco di sbucciature sulle ginocchia per imparare ad andare in bici)

La eccessiva prudenza, il calcolo meticoloso dei punti di forza e dei punti di debolezza di una nuova proposta, spesso hanno un effetto castrante.

Chiedere ad un primo colloquio quando sono le vacanze è agghiacciante. Le vacanze sono sacrosante, ma parlarne al primo incontro è come parlare di alimenti post divorzio al primo appuntamento.

La prudenza è buona cosa nella maturità, quando si ha una carriera da amministrare, non da cominciare. Lasciamo agli esordi tutta la generosità irrazionale del proprio tempo, della propria persona, del proprio sorriso. E fantastichiamo di paesi lontani e incontri straordinari: a dire SI’ spesso i sogni si avverano, anche sogni che non credevamo di potere sognare.

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