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DAL “NONNO” GUALTIERO MARCHESI UNA LEZIONE IMPORTANTE PER I GIOVANI

PC Qualche giorno fa ho intervistato Gualtiero Marchesi per vivaio.padiglioneitaliaexpo2015.com, il web magazine rivolto a tutti gli studenti e  insegnanti d’ Italia diretto da Fabio Zanchi, del quale  Media Arts – con la quale collaboro – segue la redazione su incarico di Expo Padiglione Italia.

Per gentile concessione di Studiodispari che ha ripreso l'intervista

Per gentile concessione di Studiodispari che ha ripreso l’intervista

Di lui sapevo quello che tutti sanno: il cuoco italiano più famoso nel mondo, l’ideatore della “nuova cucina italiana”, il creatore del celebre risotto con la foglia d’oro (confesso subito che sono riuscita dopo l’intervista ad assaggiarlo e la sua fama è completamente meritata!).

Non sapevo invece che l’arte e la cultura che Marchesi riversa nella sua cucina trovano nella sua famiglia  uno sbocco differente: la musica. A partire dalla suocera, che era soprano, passando dalla figlia arpista, fino ad arrivare ai tre splendidi giovani nipoti che sono tutti esperti musicisti (uno di  loro rappresenterà a breve l’Italia in un concorso internazionale in Giappone).

Proprio pensando a loro, in una piacevole chiacchierata nel dehors del Marchesino, il suo ristorante di fianco alla Scala, Marchesi, una volta risposto alle nostre domande, ha fatto un commento che contiene un insegnamento utile per tutti i giovani che iniziano una qualsivoglia professione: “E’ ripetendo sempre lo stesso pezzo che si perfeziona. È come suonare uno strumento o un pezzo, ogni volta diventa sempre meglio. E’ difficile arrivare a capire questo, solamente una persona competente, sia in un campo che nell’altro, può arrivare a capire la differenza, ma è continuando a fare lo stesso pezzo che si migliora, non continuando a fare un’altra cosa, perché sennò non si impara niente. Si suona per diventare musicisti, poi ogni tanto nasce qualche compositore, ma si suona per fare il musicista non per diventare compositore, e così anche in cucina. Invece tutti fanno i compositori, senza aver ancora imparato la parte!”

Come ben sa chi suona uno strumento (e anche i suoi vicini di casa) per arrivare a eseguire bene un pezzo è necessario ripetere, ripetere e ripetere più volte le stesse battute. Credo che Patrizia, che aveva la cameretta sopra la mia, ancora ricordi come un incubo un passaggio del Sogno d’amore di Litzt che suonavo e risuonavo, non arrivando, ahimé, comunque neanche lontanamente alla perfezione del risotto con la foglia d’oro (ed per questo che non ho fatto la musicista).

Molte volte ho visto giovani talenti che non avevano l’umiltà o la costanza di adattarsi a ripetere qualcosa che avevano già fatto.  Il desiderio di confrontarsi con nuove sfide li portava ad essere superficiali nello svolgere i lavori di routine o nel seguire un percorso già tracciato da qualcun altro. È un sentimento molto comprensibile in chi svolge dei lavori creativi, ma anche pericoloso. Io stessa quando ho avuto l’incarico di affiancare Marco Lombardi nel corso Brand Lab in Iulm ho avuto come prima reazione il desiderio di personalizzarlo, ma poi ho capito che il mio contributo sarebbe stato più utile nel cercare di perfezionare qualcosa che funzionava già bene, rispetto a creare qualcosa di nuovo.

Come conclude Gualtieri Marchesi: “non tutti siamo compositori, la maggior parte delle persone sono degli ottimi musicisti”. E credo sia importante impegnarsi costantemente per esserlo.

Quindi il mio consiglio è quello di dimostrare il vostro talento nel fare sempre meglio quello che vi è stato assegnato. Se qualcuno di voi avrà le capacità per creare qualcosa di suo, ci riuscirà comunque anche senza trascurare il proprio compito. Di celebri tenori che non conoscono la musica io ricordo solo Pavarotti, per tutti gli altri vale la massima già citata: rehearse, rehearse, rehearse.

A questo link l’intervista a Gualtiero Marchesi: https://www.youtube.com/watch?v=Pxi2oSgu7CQ

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Curare i sintomi: primo passo verso la professionalità

PB In caso di dipendenza (dal sesso, dalla droga, dall’alcool) a volte è molto (troppo) difficile curare le cause. Molti terapisti puntano sulla cura del sintomo: indipendentemente dalle ragioni per cui abusi di cibo, alcol, sesso (abbandonato da piccolo alla Rinascente? morsicato dal criceto? intossicato di carpaccio ?) l’importante è costruire una terapia che metta ordine nei sintomi.

Nessun abuso solitario: si mangia solo in compagnia, solo in misura adeguata (vale anche per alcol e sesso). Se sei a casa da solo e ti viene voglia di svuotare il frigo, esci e prendi appuntamento a pranzo con un amico. Se lo fai sempre e riesci a essere disciplinato, dicono i terapisti, magari il dolore del morso del criceto non ti passa, ma avrai superato la difficoltà di non riuscire a mangiare di fronte ad altri, di associare il cibo a qualcosa di cui vergognarti, di cambiare taglia – e guardaroba -ogni 2 mesi.

Lo stesso vale per la nostra professionalità.

Io sono disordinata. E detesto il disordine. Sono pigra. E detesto i poltroni. Sono distratta ma non tollero la superficialità. Procrastino le cose che mi annoiano ma non sopporto i ritardi. Qualche altro pregio naturale ce l’ho (si, si davvero) , ma sulle cose che ci vengono bene naturalmente è inutile lavorare e consultare blog.

Ecco come sopravvivere ai propri difetti e costruire una professionalità che non sempre sgorga dalla nostra natura.

Perché sul lavoro (ma forse anche nella vita) la frase: “devi accettarmi così come sono” , non funziona. Se sei disordinato, pigro, superficiale e ritardatario le prospettive di carriera si riducono al lumicino. Essere (anche se a costo di forzature dolorose) ORDINATI, PUNTUALI, OPEROSI è nel capitolato di base.

Per chi è disordinato, vulcanico, esuberante: il tavolo (se è solo vostro) può avere ammonticchiate le vostre carte, ma quando un documento esce dalle vostre mani, per avventurarsi da solo su tavoli estranei e essere ambasciatore delle vostre idee, deve essere letto e riletto. Controllate che non ci siano errori di battitura, che le maiuscole siano al posto giusto, che i caratteri siano sobri e regolari. Noi disordinati dobbiamo puntare alla regolarità più becera. Aspirare alla banalità. Farà buona media con la nostra esuberanza e il risultato sarà di una discreta classe.

Mi è capitato recentemente di avere un buon curriculum tra le mani, ma il nome di battesimo della candidata era rimasto minuscolo. Non mi ricordo il suo voto di laurea, ma mi ricordo che non deve avere riletto il cv prima di stamparlo e di inviarmelo. Mi rimane un retrogusto sgradevole per una stupida minuscola. Vorrei dimenticarmene e passare oltre, ma non c’è niente da fare: il retrogusto è lì.

Per chi è pigro: costruire l’agenda e prendere impegni nei sacri momenti di buoni propositi. Noi pigri in incognito siamo di quelli che non decidiamo mai all’ultimo momento di andare a vedere una mostra o di fare un giro di store check: di fronte al divano neanche le sirene. Ma essendo lombardi e proto calvinisti, se abbiamo già prenotato a Teatro o dato parola a un’amica di andare a una Prima, non facciamo mai bidone. Quindi gestite agenda a lungo termine. Prendete impegni quando avete un orizzonte piuttosto lungo che non vi impone eroismi immediati ma solo la gioia del programmare: sotto data non dovrete decidere nulla, solo obbedire a impegni già presi.

Io, che passo per una donna operosa, se avessi il cervello con il viva voce non potrei circolare: tra sogni oziosi e ambizioni a basso voltaggio dovrei essere cintura nera di pennichelle più che dirigere un’azienda.

Per chi è ritardatario: prendetevi sempre degli impegni (personali, che conoscete solo voi) tra un appuntamento e l’altro, serviranno da cuscinetto per risolvere il vostro innato ottimismo che vi fa regolarmente sottostimare il tempo di percorrenza per arrivare a destinazione.

Lo scorso lunedì ho tenuto una lezione all’Università di Lugano. Su google map mi davano 1 ora, e 35 minuti per arrivare. Lezione alle 10,30. Ho pensato di andare con un po’ di anticipo così da prendere un caffè sul lago prima della lezione e assistere almeno a mezz’ora della lezione prima del mio intervento per orientarmi tra i ragazzi e gli insegnanti che non conoscevo.

In realtà sono stata bloccata oltre mezz’ora sulla tangenziale (lavori Expo), si è verificata una piccola frana a bordo lago con traffico alternato e speleologi che mettevano in sicurezza montagna (poi ho scoperto da colleghi comaschi che non è avvenimento così esotico sul lago), non avevo la vignette per andare in autostrada in Svizzera (il che mi ha costretto a percorrere la Statale), il parcheggio funzionava con i Franchi Svizzeri e io avevo solo Euro.

Sono arrivata in classe alle 10,29, con il sorriso come se fosse normale (la lezione stava per iniziare: ero in perfetto orario), ma con uno stato psicologico da ricovero ospedaliero e con l’anima sudata. Se non avessi fatto tutta una serie di programmi cuscinetto (caffè, lago, orientamento tra i volti con cui mi sarei confrontata di lì a poco) sarei arrivata con oltre un’ora di ritardo.

Naturalmente esistono persone normali che avrebbero tranquillamente programmato il tempo corretto della tangenziale all’ora di punta, del parcheggio, del cambio euro/franco.

Persone che sono naturalmente operose e non hanno bisogno di dormire almeno otto ore a notte per essere felici.

Persone che hanno l’armadio in ordine per colore e adorano fare il cambio stagione e non devono comprare tutte le volte che vanno in montagna uno scaldacollo o la protezione UV perché la sera prima della partenza non trovano qualcosa.

Ma questo blog non è per i perfetti. Se no a cosa servirebbe?

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Se nelle nubi vedi un dinosauro puoi fare il marketing

PB Quando gioco al Mercante in fiera (capita anche a voi il Natale pomeriggio? in concorrenza con la Tombola?) io non colleziono carte a caso: mi invento connessioni più o meno evidenti tra diversi disegni (compro carte vegetali o personaggi femminili o animali cornuti…)  immaginando tra loro legami non visibili a tutti. Gli altri giocatori non capiscono la mia determinazione nel lottare per alcune figure e la mia indifferenza per le altre. Niente acquisti compulsivi. Solo un disegno che io traccio con matita leggera. Di solito funziona. Memorabile (i miei nipotini sono ancora sgomenti) una vittoria con IL CANE (“le chien”, era un dalmata, testa di serie numero uno del mio gruppo di “animali maculati” in cui avevo raccolto anche la zebra e la tigre) nel match di Natale 2012.

Quando affronto un progetto (di qualsiasi tipo) mi piace sapere disegnare una via, una strategia che guidi le mie azioni.

Dopo avere lavorato (e ancora aimè dandomi da fare parecchio) in importanti aziende e per moltissimi progetti, ho scoperto che non è così importante il tipo di strategia che si sceglie per perseguire un obiettivo, ma il fatto di averne una, di non brancolare nel buio, di non confondersi in azioni incoerenti.

L’inizio di un lavoro (soprattutto nuovo) ci pone di fronte a molti elementi, a volte disordinati, senza gerarchia (i commenti di un agente aspirante stilista, i dati di mercato, i venduti della contro stagione, il fatto che quest’anno vi piaccia tutto quello che è verde e siate annoiati dall’animal print, l’aumento dei costi di produzione, la mancanza di risorse dedicate…), con messaggi spesso contraddittori tra loro.

Il rischio di non sapere dove andare a parare è alto (da dove comincio? chi ascolto?). La paura di sbagliare può paralizzare (abbasso i prezzi per rispondere a un minore potere di acquisto? O alzo a manetta i prezzi per vendere ai soliti ricchi – tanto quelli non mancano mai? Ottimizzo le sku producendo solo le taglie più vendute? O faccio solo le taglie marginali per essere leader della nicchia degli extra large?).

Sapete cosa funziona? Scegliere. Non scegliere la cosa giusta (in generale non esiste mai assolutamente una cosa giusta) ma semplicemente scegliere. E per scegliere bisogna saper vedere almeno una strada. Come quando si guardano le nuvole e si vede chiaramente un dinosauro o un’ anatra seguita dai cuccioli.

Non abbiate la fretta assoluta di agire, di dimostrare il vostro dinamismo (beh neanche sonnecchiate per settimane se il vostro periodo di prova è di 2 mesi…) se non avete ancora sentito un clic nel cervello che vi dice da che parte andare. Rimanete sdraiati sul prato a guardare le nubi, fino a che non vedete qualcosa.

Siete tagliati per il marketing se, di fronte all’entropia del mondo, riuscite a vedere concrezioni organizzate, riuscite a mettere ordine critico, a individuare il fil rouge che lega oggetti apparentemente estranei tra loro, ad avere una intuizione che vi trasporta quasi come una inevitabile corrente. Se nel cielo vedete solo nuvole forse nel futuro avrete più meteorologia che marketing.

Essere capaci dare la direzione, di segnare una rotta ha numerosi positivi effetti collaterali :

– si riducono i tempi decisionali

– si motivano i collaboratori

– si riduce l’ansia

– si tratta il paesaggio professionale come un campo di gioco

– si acquista fantomatico mistero (Franco Battiato docet)

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Per fare un manager ci vuole un cactus

PB Ho ascoltato recentemente una intervista – su Radio Capital – a Niccolò Branca, autore del libro Per fare un manager ci vuole un fiore.

Precisando che non ho ancora letto il libro (è uscito per Mondadori a fine 2013 e affronta il tema della meditazione e della autoconsapevolezza nella gestione manageriale), che non conosco l’autore (è proprio il presidente delle distillerie Branca, quelle del Fernet), che forse mi sarebbe anche simpatico dato che dice di avere come ideale di manager una persona con la luce negli occhi e che tiene un blog (proprio come me e Paola con Trampolinodilancio), mi preme sottolineare che, spesso, per fare un manager ci vuole un cactus. O una clava, vedete voi.

E per non usare la metafora guerresca (si sente dal tono che ho iniziato il 2014 in trincea? Con un coltello tra i denti? ) che forse è troppo dura, troppo maschile, troppo fuori moda (ma che a volte ci azzecca eccome!) quella dello sport è forse l’area che ancora vedo più vicina alle dinamiche dell’impresa e della managerialità.

Se pensiamo a come si prepara un atleta, molti sono gli elementi che si possono mutuare per gestire la nostra carriera manageriale:

la cura della preparazione: “la preparazione è la metà del successo”  diceva un mio capo. Un tantino esigente, ma aveva ragione: gli imprevisti possono sempre presentarsi, ma non sottovalutiamo le situazioni che dobbiamo affrontare pensando che la nostra capacità di improvvisazione possa sempre farci uscire vincenti. Recentemente mi è capitato che un brillante avvocato abbia compromesso la relazione con un cliente perché, parlando sopra la voce di collaboratori forse meno carismatici ma più preparati, ha dato l’impressione al cliente che lo studio legale non si fosse occupato con la dovuta attenzione del caso in discussione.

la fatica dell’allenamento:  con lo studio, gli esercizi, le prove, la gavetta: d’altra parte se fosse solo divertimento perché dovrebbero pagarci per lavorare? E quale buon lavoro avete in mente (dalle Piramidi, alla Pastiera napoletana) che non sia il frutto di duro lavoro?

l’eccitazione della gara: quando è il tuo momento e le endorfine cancellano tutta la fatica e non fa più male e si dà il meglio di sé. Quando si scende nell’arena si vuole vincere, alla faccia di de Coubertin.

la competizione per il primato: la tensione verso il risultato, la capacità di misurarci e superarci. Il punteggio, la quota di mercato, il fatturato, la notorietà del marchio: i numeri non sono dei nemici, ma i nostri alleati per darci la posizione dei blocchi di partenza e per disegnare l’orizzonte del nostro obiettivo.

la lealtà verso l’avversario: in epoca in cui i bluff sono scoperti, le bolle sono scoppiate, che bello vedersi forti ma leali e trattare i nostri avversari come vorremmo essere noi trattati nella sconfitta. Perché è ben giusto anche partecipare. Alla faccia di de Coubertin

il gusto per la vittoria: e sì, diciamolo, che bello vincere! Non esiste un motivatore migliore del successo per essere spronati a fare sempre meglio! compresa la festa, le foto e i regali. Che professionalmente parlando sono una migliore visibilità, un migliore stipendio, una migliore posizione. Senza arroganza. Ma anche senza falsa modestia.

(nel frattempo ho sbirciato il sito  http://www.branca.it: ci sono un sacco di cose che mi piacciono, dal fatto che esista un museo visitabile al pubblico, al formidabile logo con l’aquila e il mondo: forse non leggo il libro, ma un bicchierino di PUNT E MES  – solo per come si racconta della sua nascita – me lo farei: che aiuti l’autoconsapevolezza? al limite mi solleverà l’umore).

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Generosi e curiosi. Quasi magici

Duomo di Ostuni

Duomo di Ostuni (Photo credit: Wikipedia)

PB Ho fatto qualche giorno di vacanza di fine anno in Salento. Che bello!

Al di là di quel paio di rotolini di ciccia che mi sono rimasti attaccati , causa pasticciotti e orecchiette, e degli occhi pieni di Barocco Leccese, mi rimane una riflessione per voi, cari lettori di Trampolino.

Il 31 dicembre siamo andati a Ostuni. Purtroppo per i turisti (e bene per i sereni pugliesi) nel tacco d’Italia, tra le 13 e le 16,30 nulla è aperto. Chiudono le chiese, i musei, i negozi.

Noi siamo arrivati davanti alla Concattedrale alle 13,01. Ne usciva, chiavi in mano, una ragazza che, deposto secchio e straccio, aveva appena finito di lavare il pavimento della chiesa, nell’unica giornata piovosa della nostra vacanza.

Abbiamo, con aria un poco supplice, chiesto se poteva almeno farci sbirciare dalla porta la navata centrale.

La ragazza ha esitato un attimo, poi ha sospirato, poi ha riaperto la porta, poi ha detto “vabbé ripasserò lo straccio”, infine ci ha fatti entrare.

I bambini hanno tolto il cappello ma, aimè, le scarpe erano piuttosto infangate. Si sono accorti che la navata centrale era storta.

Così la fanciulla, che ci guardava un po’ discosta e preoccupata per il suo pavimento non più pulito, ha cominciato a raccontare: l’abside fu ricostruita in un secondo tempo e purtroppo la roccia sottostante non aveva consentito di fare le cose per bene e di mantenere tutto in simmetria.

La leggenda attribuisce però la strana forma alla scelta dell’architetto che aveva voluto riprodurre, nella pianta del tempio, il capo reclinato di Cristo sulla croce.

Ci siamo così ritrovati, fuori tempo massimo, in una chiesa tutta nostra, con una guida gentile che con lo spazzolone in mano ci raccontava di stucchi che sembrano marmi, di rifacimenti settecenteschi, di errori che diventavano leggenda.

La nostra gita ritardataria si è trasformata in poesia.

La signorina che lavava i pavimenti in una generosa padrona di casa.

Ogni situazione può trasformarsi, per l’occhio che trasfigura.

Non si tratta di essere illusi o ingenui o stupidi.

Si tratta di dotarsi di uno sguardo capace di vedere al di là, di intelligere armonie invisibili alla sguardo banale, che non prevede deviazioni.

Siate generosi e appassionati del vostro lavoro, qualunque esso sia. Non siate avari e risparmiosi. Potrete trasformare imperfezioni in poesia, uno spazzolone per lavare i pavimenti in una bacchetta magica.

Vi auguro per il 2014 un occhio capace di trasfigurare, un cuore capace di sbagliare (in eccesso) la misura.

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Ronald un anno dopo

PB  Ecco una commovente storia di Natale: Alessandra B, la mamma del mio nipotino Francesco, ha trovato ieri nella casella della posta una lettera scritta a mano (esistono ancora persone che scrivono lettere a mano!). Si tratta di un messaggio bellissimo (che trascrivo pari pari) che riguarda noi (infatti fa riferimento a un post di Trampolinodilancio dello scorso anno: vi ricordate? Si parlava di Ronald, l’autista dello scuolabus di Abbiategrasso)  ma soprattutto riguarda la passione per il proprio lavoro, la generosità, la professione.

E se un giorno mai diventerete i capi di qualcuno, non dimenticate mai di ringraziare i vostri collaboratori per un lavoro ben fatto. La gratificazione, il feed back è uno dei motori più potenti per dare vigore al proprio lavoro.

Grazie Ronald. Buon Natale. E Auguri a tutti i lettori di Trampolino

Abbiategrasso 18 dicembre 2013
Alla Signora Zia di Francesco

Le invio questa mia lettera per ringraziarla del pensiero che ha avuto nei miei confronti.
Mi spiego.
Circa un mese fa un amico mi ha informato che in internet una Signora aveva scritto un qual cosa che mi riguardava,non dicendomi cosa.Ho cercato con Google e sono rimasto positivamente sorpreso di quello che Lei aveva scritto di me e del mio modo di lavorare.
Non le nego che qualche lacrima è scesa leggendo quelle parole, perché non avrei mai pensato che qualcuno avrebbe avuto la sensibilità e la cortesia di scrivere quello che io facevo sul mio scuolabus per “i miei bambini”.Sì proprio come li considero ancora oggi i bimbi che usufruivano del trasporto scolastico con cui ho instaurato un rapporto bellissimo, quasi da fratellone con cui si poteva ridere scherzare e passare un bel momento durante il tragitto casa/scuola e viceversa.
Ricordo sempre con molto piacere e un po’ di nostalgia i moltissimi episodi  vissuti con i bimbi e le cose che ci siamo detti, cose che non si dicono alla mamma e nemmeno alla maestra, ma al Ronald sì. Era quello che mi faceva lavorare in quel modo, la fiducia che avevamo l’uno dell’altro, di quei bimbi che si affacciavano alla vita al di fuori della famiglia e che avevano bisogno di un appoggio sicuro,qualcuno su cui contare, a cui chiedere. Lei si è accorta di questo stupendo ambiente che  c’era sullo scuolabus in un attimo, perché solo alla fermata poteva vedere ciò che per noi era normalmente stupendo e con parole belle e semplici ha descritto la passione che mettevo nel fare il mio lavoro.
La ringrazio molto per quello che ha scritto, perché una sincera pacca sulla spalla con qualcuno che ti dice bravo ti fa continuare a lavorare bene nonostante tutte le  difficoltà, ti gratifica di un qualcosa che tu hai fatto senza chiedere nulla in cambio e il pensiero che Lei ha avuto nei miei confronti è una spinta a continuare a lavorare così.

Grazie ancora e auguri di buone feste alla sua e alla famiglia di Francesco


 

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Quando il perfezionismo ci rende imperfetti

PB Da qualche tempo volevo scrivere dei pericoli del perfezionismo.

Un paio di letture di Dicembre e diverse esperienze vissute mi confermano dell’urgenza: devo mettervi in guardia, sul lavoro e nella vita, dal pericoloso “perfezionismo”.

Sto leggendo OPEN, l’autobiografia (scritta a quattro mani con un premio Pulitzer e si vede) di André Agassi, stravagante tennista, campione fuori dai canoni, tamarro come un calciatore, malinconico come un poeta, capace di vittorie e sconfitte come un cavaliere romantico.

Lui ha iniziato a vincere quando il suo coach gli ha imposto di smettere con la ricerca del colpo perfetto. Non doveva desiderare di essere perfetto, solo desiderare di vincere. E’ stato il consiglio che lo ha portato a divenire il n° 1 nel mondo.

Ho letto – e condiviso –  poi sul Corriere della Sera di sabato 7 Dicembre  che il perfezionismo sarebbe nemico della felicità (del perfezionista medesimo e soprattutto di chi lo frequenta):

–           procrastina i progetti perché non sono mai perfetti

–           frustra i propri collaboratori , esigente fino alla noia non solo con se stesso

–           perde il senso dell’insieme, naufragando in un mare di dettagli trascurabili

Fra le eccezioni di perfezionisti di grande successo il Corriere cita, tra gli altri, Giorgio Armani. Come a dire che esistono casi in cui il perfezionismo è fonte di successo. E qui dissento: ho lavorato con Re Giorgio e posso dire che il suo talento è tale che ha fatto da antidoto al suo perfezionismo. Lui è grande nonostante il suo perfezionismo.

Quindi, dato che non tutti sono dotati di talento da buttare via, vi esorto a non perdere mai il senso dell’insieme, la capacità di sintesi, la visione di un progetto.

Non procrastinate decisioni importanti solo perché non tutto è perfetto.

Ecco qualche esempio pratico in cui l’infelicità passa dal desiderio della perfezione:

– Quelli che passano quattro mesi , da marzo a giugno, a fare preventivi e itinerari per la vacanza perfetta (un paradiso a due lire). E alla fine stanno a casa.

– Quelli che al ristorante, no perché è troppo rumoroso, no perché le luci sono troppo basse, no perché c’è odore di fritto, no perché i camerieri sono villani, no perché anche se prenoti non ti danno il tavolo migliore. E alla fine stanno a casa.

– Quelli che servono le foto dello shooting per la riunione di vendita, ma siccome non sono tutte fotoshoppate, e perché i tagli non sono finalizzati, le tengono segrete fino alla fine della campagna vendite. Quando sono bellissime ma non servono più a vendere.

– Quelli che non dicono la loro perché sanno male l’inglese. E alla fine soffrono perché avevano una idea bellissima che non sarà realizzata.

Una sola cosa, sul lavoro e nella vita, è peggiore del perfezionismo: la sciatteria. Non correggere le slides prima di andare in presentazione (ho assistito recentemente a una riunione in cui, nell’agenda proiettata , marketing era scritto marketting con due t: hargh!!!) , non essere in ordine per un meeting importante (ricordo un meeting in Omega in cui un relatore indossava un Rolex…) , sono atteggiamenti imperdonabili. Avete visto la regia di Traviata per la prima della Scala? Con i gesti che non corrispondevano alle parole e ai sentimenti? E i costumi di Violetta? Che una donna innamorata non indosserebbe neanche per fare un trasloco? Ecco lì un po’ di perfezionismo e meno sciatteria avrebbero dato una mano.

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Come fare carriera sulle ali della propria reputazione

PB Nel lavoro il modo di lasciarsi è spesso la premessa di come riprendersi.

Date per assodate le capacità tecniche (non c’è bisogno di leggere un blog di cucina per capire che, se si ha l’ambizione di fare lo chef, bisogna imparare a cucinare) il nostro comportamento durante i momenti salienti del lavoro in azienda (la prima settimana, le riunioni di lancio, le presentazioni e – sì, proprio così – gli ultimi giorni prima di cambiare lavoro) sono davvero indelebili nella memoria di chi poi, per tutta la vita, girerà mondo e aziende con una certa opinione di noi. E quella opinione divulgherà in modo più o meno consapevole, contribuendo alla nostra “reputazione”.

Ecco qualche esempio (vero) di buoni – relativamente alla reputazione professionale – e cattivi comportamenti.

1)      darsi malati. C’è una categoria di persone che per evitare una situazione di difficoltà (come i ragazzi che bigiano l’interrogazione) o per sottolineare la propria insoddisfazione (come quelli che non si presentano a una festa perché non condividono la lista degli invitati), quando c’è  un momento importante (riunione, presentazione, inaugurazione, cena di Natale, corso di formazione, viaggio all’estero…) si danno malati. Lasciando dietro di sé il triplice amaro sapore della menzogna (normalmente tutti sanno che la malattia è una scusa), della permalosità (non è venuta perché aveva il posto standing in sfilata anziché la poltrona in prima fila), della inaffidabilità (non ci si può contare, all’ultimo può dare forfait).

Un mio ex collega è stato a casa tre mesi in malattia per contrasti con l’azienda. L’azienda normalmente non si accorge di niente (è una entità astratta priva di sentimenti) , ma i colleghi lo hanno stramaledetto ogniqualvolta hanno dovuto fare il suo lavoro o si sono trovati nei pasticci perché nessuno aveva fatto, appunto, il suo lavoro. La sua reputazione è per me di totale inaffidabilità, indipendentemente dal fatto che le sue rivendicazioni fossero giuste.

Si sta a casa malati solo se si è veramente malati. E il giorno in cui si conta su di voi, ci si trascina anche sui gomiti.

Ricordo di una mia tragica presentazione: nuova collezione e nuova campagna pubblicitaria.  Forza vendite da tutto il mondo. E abominevole dissenteria. Ricordo di avere ingurgitato una scatola di Dissenten, di avere coperto il tragitto in automobile da casa all’ufficio con una salvietta da mare appoggiata sul sedile (ad evitare drammatiche complicazioni sull’auto aziendale), di avere mappato tutti i bar con bagno da via Lorenteggio a via  Borgonuovo. Chiaro che finito il mio speach mi sono precipitata a letto, con boule dell’acqua calda e piumotto. Al rinfresco nessuno ha notato la mia assenza, ma la presentazione è andata e io ho guadagnato gratitudine eterna dal mio capo.

2)      parlare la prima settimana . La prima settimana si parla solo se espressamente interrogati e si evitano soprattutto considerazioni sui massimi sistemi. La tentazione di dire qualcosa di memorabile è forte. Ma la probabilità di dire grandi sciocchezze dovrebbe frenare a nostra verve affabulatoria.

Recentemente una collega, appena arrivata per gestire il prodotto su un mercato estero, ha contestato una combinazione di colori, accampando una inidoneità culturale sul suo mercato. Peccato che quella non fosse “una” combinazione, ma “la” combinazione. Insomma come dire alla Ferrari di togliere il rosso dalla cartella colore.

La nuova arrivata ora non parte dal pian terreno, ma dalla cantina. Il Penthouse pare lontano.

3)      Tacere l’ultima settimana. Bisogna comportarsi come quando si chiude casa al mare: come se dovessimo ritornare la prossima estate.

Tutto, per quanto possibile, deve essere in ordine, chiuso e il passaggio di consegne deve essere generoso.

Alla fine di un rapporto di lavoro siamo i più esperti della nostra materia. Una parola in più, una certa generosità nel passaggio delle informazioni, sarà molto apprezzata da chi ci sostituirà e da chi è stato il nostro capo fino ad ieri.

Io sto per essere “lasciata” da un collaboratore che stimo molto. Detto collaboratore sta gestendo le sue ultime settimane cercando di fare il meglio perché il team non sia in difficoltà per la sua dipartita, perché questa collezione sia trattata con le cure che si dedicano a un neonato, non con la superficialità di un oggetto di transizione. Questo atteggiamento generoso e responsabile perpetuerà l’affettuoso rimpianto di lui. E aumenterà la sua buona reputazione.

Ho conosciuto colleghi che hanno chiuso con l’azienda lasciando gli ultimi lavori sbrindellati, listini senza coerenza, contratti ammaccati, ore di chiacchiere alla macchinetta del caffè ricordando aneddoti più o meno divertenti delle loro gesta passate. E lasciandosi alle spalle una pessima reputazione.

L’ultima settimana si parla molto. Ma non di noi, del lavoro che lasciamo, a memoria del nostro operato e della nostra professionalità.

Ripercorrendo la mia carriera, mi rendo conto di avere beneficiato spesso della mia buona reputazione: almeno tre delle aziende per le quali ho lavorato mi hanno cercata perché qualche mio ex capo o ex collega ha parlato positivamente di me. Un ex dirigente degli orologi mi ha assunta per i reggiseni, una ex collega della moda mi ha raccomandata per Armani, un ex capo di Armani mi ha consigliata per il tennis. E altrettanto ho sempre fatto io con chi ha lavorato bene con me, con chi ha sorriso la prima settimana, ha parlato l’ultimo mese e si è ammalato solo quando girava una micidiale influenza.

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