Archivi categoria: Personal branding

Quando dei giovani per lavorare si fanno aiutare da de vecchi

PC Per entrare nel mondo del lavoro serve esperienza pregressa: i due ragazzi di cui vi parlo oggi hanno deciso di crearsela da soli costruendo attorno a Felice De Vecchi –  un patriota milanese dell’800 – e a un suo manoscritto che racconta di un viaggio in oriente, una mostra, una campagna sui social e un sito web, che possano accreditare le loro capacità con un esempio concreto.

Felice De Vecchi

Felice De Vecchi

 

Alice Bitto segue l’evento culturale occupandosi di investimenti, location, reperti, interventi e ovviamente di tutta la trascrizione, studio e ricostruzione del manoscritto ottocentesco, mentre Andrea Fontana, che conosco perché ci dà un aiuto in Iulm, si occupa di tutto quanto è digital.

L’idea davvero originale è quella, nella fase di lancio della mostra, di fingere che Felice De Vecchi avesse a disposizione Facebook e Google + come diario di viaggio, ripercorrendo in chiave moderna le tappe della sua avventura in una forma di story telling sociale.

Trovate il racconto del viaggio di Felice De Vecchi su www.facebook.com/felicedevecchi, oppure su  https://plus.google.com/101900631945839493561/posts

Durante l’avvio della mostra gli sforzi verranno invece concentrati su twitter: verrà attivato un live tweet dove gli utenti dentro e fuori la mostra avranno modo di chiedere informazioni sull’esposizione tweettando nell’hashtag  #giornaledicarovana.

A volte la crisi, come già visto nel post precedente, costringe a individuare delle soluzioni originali per farsi notare, questa mi sembra unisca cultura e innovazione in modo inedito.

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Fare uno stage aiuta a trovare un lavoro: ecco come un’intraprendente americana si è procurata lo stage dei suoi sogni.

Durante l’ultimo convegno Ambrosetti, il ministro dell’Istruzione Carrozza ha definito “intollerabile” che in Italia un giovane arrivi a 25 anni senza aver avuto esperienze di lavoro:  in Italia, infatti,  gli studenti che studiano in parallelo a un lavoro sono solo il 3,7%, il dato più basso in Europa.

Vignetta di Arnald

Vignetta di Arnald

Anche gli studenti (il 96% dei 2.200 ragazzi intervistati via web da Skuola.net)  riterrebbero utile svolgere uno stage in azienda durante il percorso scolastico. Ma il dato più interessante è che dove il binomio studio e lavoro funziona, e lo stagista non si trova semplicemente a fare fotocopie o caffè, la probabilità di trovare un’occupazione aumenta considerevolmente: secondo una ricerca di Almalaurea, almeno del 12%.

Come procurarsi quindi uno stage qualitativo? Puntando sul proprio personal branding e sfruttando tutte le possibilità offerte dall’era digitale. Ce lo dimostra un’industriosa ragazza texana che non ha esitato a creare un blog dedicato al giornale dove desiderava lavorare, riassumendo i motivi in una spiritosa infografica, per poi twittare all’azienda stessa: “The magazine you edit inspired this: Infographic: Future Intern Maps Brand Inspired Pitch http://dearfastcompany.wordpress.com.” La ciliegina sulla torta era una foto photoshoppata che la ritraeva mentre lavorava già nella redazione.

Dopo due ore e mezza è stata contattata, dopo una settimana ha fatto il primo colloquio, e ora, dopo uno stage, è stata assunta.

Grazie a Stefano Del Frate per l’utile e divertente segnalazione che trovate per esteso a

http://www.fastcompany.com/3016968/how-one-industrious-undergrad-tweeted-photoshopped-and-hustled-her-way-into-her-dream-intern

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Dalla moto all’ufficio: due consigli per inserirsi in un nuovo ambiente lavorativo

PC In questi giorni andando in moto sulle Alpi francesi ho fatto due sonori starnuti ed entrambe le volte ho portato la mano davanti al casco, compiendo un gesto inutile, ma per me  talmente automatico da farlo anche quando indosso un casco integrale.sorriso

La cosa mi ha divertito, ma mi ha anche fatto riflettere:  la moto è infatti per me una sorta di yoga durante il quale la mente vaga liberamente, complice il fatto che – essendo un semplice passeggero dietro a mio marito che guida – l’unico impegno che mi viene richiesto è quello di assecondare le curve ed evitare di dare testate al suo casco, quando il cambio di marcia è più strappato del consueto.

Ho quindi riflettuto che ci sono dei gesti che ci vengono talmente inculcati quando siamo piccoli che poi diventano per noi totalmente automatici, e che vorrei che sorridere a chi ci sta parlando, o anche semplicemente a chi incrociamo in corridoio, diventi uno di questi gesti automatici per tutti quelli che iniziano a lavorare.

Un sorriso è infatti un modo di dimostrare disponibilità verso gli altri, che in un giovane si traduce con apertura a imparare, rispetto per le altre persone, socievolezza: in poche parole un bel sorriso vi presenterà come una persona con la quale è piacevole lavorare.

Se state facendo un colloquio di lavoro il sorriso sarà una delle prime cose di voi che il selezionatore noterà: un fatto da non trascurare visto che come Oscar Wilde ha scritto con la solita arguzia“Non c’è mai una seconda occasione per fare una buona impressione la prima volta” (un grazie a Giovanna, la mia tesista che sta lavorando sul tema del Personal Branding, che me lo ha recentemente ricordato).

Nello stesso giro in moto mi è poi successo di salutare con un breve gesto tutti i motociclisti che incrociavamo: un segno di riconoscimento e di appartenenza che solo quando ho iniziato ad andare in moto ho scoperto che praticamente tutti i motociclisti praticano.

All’interno di questa macrocategoria di saluto c’è poi l’abitudine che dalla Francia si è diffusa in tutta Europa di salutare il motociclista che si è appena sorpassato sollevando la gamba destra e allungandola (l’effetto assomiglia parecchio a quella di un cane che fa pipì, tanto che la prima volta che ci è successo, molti anni fa, mio marito e io abbiamo pensato che fosse un gesto di sfregio, come a dire: “Tiè, ti ho sorpassato, lumaca che non sei altro”!).saluto 2

Nel pigro vagare della mia mente, intervallato solo dai frequenti saluti con i motociclisti, ho avuto modo di pensare a quanto sia importante imparare i gesti e i microgesti che aiutano un neoassunto a diventare rapidamente parte del suo nuovo ambiente lavorativo. Ci sarà l’azienda in cui è un rito prendere a una certa ora il caffè, e a quel punto il mio consiglio è di berlo anche se si odia la caffeina o ripiegare sulla bevanda al gusto di latte che qualsiasi macchinetta offre in alternativa. Si scoprirà che nella pausa alla macchinetta del caffè vengono spesso rivelate molte più cose che durante l’intera giornata lavorativa.

Essenziale anche capire a chi si può dare del tu: nelle agenzie di pubblicità in generale si dà del tu subito a tutti, ma in altre realtà è un privilegio che bisogna guadagnarsi. Sarà fondamentale comprendere il più presto possibile come comportarsi per non apparire più a lungo del dovuto dei pesci fuor d’acqua.

In generale, proprio come noi in moto in Francia la prima volta che ci hanno salutati dopo un sorpasso, se siete nuovi in un’azienda osservate cosa fanno gli altri per imparare la cultura di quell’ambiente e cercate di imitarne il comportamento.

E se invece già lavorate, se ne avete voglia, raccontateci quali comportamenti contraddistinguono il vostro ambiente in modo che chi sta entrando ora nel mondo del lavoro possa partire avvantaggiato da qualche consiglio utile.

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Questione di Stile

PB  Sono stata un paio di giorni a Parigi.

Scrivo queste note a mano, sul retro di un contratto che poi dovrò ristampare per via che l’ho scarabocchiato con questo post, mentre volo verso Malpensa.

Ho preso spesso la metropolitana e ho visto molta gente (la metropolitana è sempre piuttosto imbottita di varia umanità).

Numerose ragazze e giovani donne si muovono per la città. Per studiare, per lavorare.

Non ho visto nessuno degli elementi che trovo abusati e davvero orribili in Italia:

–          neanche uno stivale estivo (chi è lo sciagurato che li ha inventati?). Solo sandali, di tutte le fogge, essenzialmente rasoterra.

–          Neanche una manicure con unghie ricostruite, gel, disegni, artigli posticci

–          Neanche una borsa di Louis Vuitton, accompagnata da scarpa simil jogging con tacco di Hogan, nessuna cintura Guess

–          Nessun capello stirato con la piastra alla Anna Tatangelo. Nessuna piega di quelle che esci ancora con la spazzola del parrucchiere attaccata.

–          Nessun uomo con mutanda logata in vista, nessun borsello Calvin Klein, nessuna polo di Burberry con fessino in tartan, nessun colletto rialzato dietro a mostrare il marchio (ma perché gli uomini italiani portano il colletto della polo alzato?)

Le ragazze mi parevano tutte belle e sottili (forse non hanno fame), indossavano soprattutto vestiti (a fiori, in voile, in cotone, senza maniche…), avevano i capelli sciolti o morbidamente raccolti con una naturalezza seducente.

Forse aiuta Parigi, la erre moscia, il loro scarso appetito, l’estate che sorride, il colorito diafano e il passo spedito. Ma certo nessuna di loro avrebbe potuto essere a proprio agio nel look Pokahontas  sexy che mi capita di incontrare sulla tratta Bisceglie – Duomo , linea rossa.

Consiglio a tutte un look francese: se non per trovare un fidanzato (che già non sarebbe male come effetto collaterale) almeno per trovare un lavoro. Au revoir.

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Lavorare studiando: utile e adesso più facile

PC Il nuovo decreto per il lavoro prevede che i giovani universitari e anche gli iscritti alle scuole tecniche e professionali abbiano la possibilità di passare del tempo in azienda venendo sovvenzionati dallo Stato, se hanno una buona media universitaria e sono al di sotto di una certa soglia di reddito.

How you spend your 20s define your identity-Forbes

How you spend your 20s will define you-Forbes

Questa iniziativa riconosce un valore al fatto di lavorare mentre ancora si studia, valore del quale sono profondamente convinta.

È un tema che ha  recentemente affrontato  Annamaria Testa in un interessante post sul suo blog nuovoeutile.it, ricordando che durante un sondaggio svolto tra gli studenti del suo corso in Iulm era emerso che chi aveva già avuto delle esperienze di lavoro in parallelo allo studio otteneva dei risultati migliori all’università.

Sia Patrizia che io abbiamo lavorato per quasi tutto il periodo universitario, ed entrambe ne abbiamo sicuramente tratto dei vantaggi. Nel mio caso è fin troppo facile dire che mi è stato utile, visto che sono riuscita a entrare a 23 anni in Young & Rubicam, grazie a una borsa di studio che l’Assocom di allora metteva a disposizione dei giovani.

Il fatto stesso di dedicarmi in parallelo alle due attività permetteva di vedere in modo diverso sia le materie che studiavo in università, che i compiti che dovevo svolgere in agenzia, non tanto per le singole nozioni, quanto per l’acquisizione di un approccio mentale più ampio ed elastico.

Ma mi sono state altrettanto utili alcune esperienze totalmente diverse, anche saltuarie, come la vendita di libri durante la fiera campionaria (parenti e amici costretti ad acquistare a prezzi esorbitanti titoli che non avrebbero mai comprato in condizioni normali, pur di garantirmi la soglia minima sotto la quale non sarei stata pagata)e le lezioni di pianoforte a bambini svogliati e senza orecchio musicale. Con la prima ho dimostrato a me stessa che la timidezza poteva essere vinta grazie alla determinazione, con la seconda ho imparato la dote della pazienza (non tanto nel sopportare i bambini poco dotati, quanto nel gestire le aspirazioni delle mamme frustrate).

Credo che il vero vantaggio risieda nell’acquisire una certa dimestichezza a confrontarsi con altre persone dal punto di vista professionale: gli psicologi dell’analisi transazionale  direbbero che si impara a relazionarsi con i propri colleghi e superiori pariteticamente da adulti, non come bambini che temono il giudizio del genitore.

 

In più, come sottolinea un libro appena uscito – The Defining Decade di Meg Jay-  che consiglio ai più giovani (per gli altri il rischio è solo di avere dei rimpianti!) i vent’anni sono l’età in cui si crea il proprio capitale di identità (in questo articolo di Forbes una sintesi).

Quindi il mio consiglio è di approfittare delle nuove opportunità messe a disposizione della legge (speriamo presto) e in generale di cominciare lavorare appena possibile, un appello che rivolgo non solo ai giovani lettori ma anche ai loro genitori, che a volte inspiegabilmente considerano degradanti o dispersivi alcuni “lavoretti” che i ragazzi fanno durante gli anni dell’università. Siete dello stesso parere?

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INTERVISTA A MICHELANGELO TAGLIAFERRI, SOCIOLOGO E FONDATORE DI ACCADEMIA DELLA COMUNICAZIONE

PC “C’è una persona a un certo punto.

C’è sempre una persona che a un certo punto, magari senza volerlo, dirige la vostra vita, le fa prendere una piega piuttosto che l’altra. Soprattutto quando siamo giovani. Può essere qualcuno di molto vicino, o anche un estraneo. Qualcuno che ci vive sempre accanto o che vediamo una volta sola ma in un modo così intenso che ci lascia il segno. Non si può dire. In ogni caso è una persona che noi chiameremo maestro, anche se di fatto non ci avrà insegnato niente.”  (Paola Mastrocola, Non so niente di te, Einaudi).tagliaferri-300x130

Le parole, lette ieri sera, della mia omonima, insegnante e scrittrice, spiegano molto meglio di quanto io saprei fare il mio debito di riconoscenza con Michelangelo Tagliaferri, che avendomi come alunna all’Istituto Europeo di Design, vista la mia passione per la materia che insegnava – sociologia- mi disse: “tu non puoi non fare l’università.” Gli diedi retta, mi iscrissi in parallelo al corso in Ied anche all’università e mi innamorai della sociologia. La mia passione per lo studio di questa materia mi è stata molto utile per approcciare l’analisi dei target, delle marche e della comunicazione, che sono anche ora il cuore del mio lavoro, e l’approccio universitario mi ha aperto la mente.

Lo incontro dopo quasi trent’anni, con una certa soggezione, a un convegno sull’EXPO2015 (di cui è consulente), dove tiene con nonchalance un intervento metà in francese (il convegno è organizzato dal Consolato Svizzero) e metà in inglese. Ovviamente non si ricorda di me, mentre io lo trovo identico a trent’anni fa. Mi spiega che il trucco è farsi crescere da giovani una folta barba e poi tenerla uguale negli anni. La gente si focalizza su quella e ti trova sempre identico (e anche questo è personal branding!). Gli chiedo di rilasciarmi un’intervista per trampolinodilancio, con pronta gentilezza accetta e mi riceve dopo qualche giorno nella sede di Fondazione Accademia, la fondazione responsabile di quella che prima era Accademia di Comunicazione, una delle più esclusive scuole di comunicazione e marketing d’Italia, da lui fondata l’anno dopo che io finii lo Ied.

Partecipa all’intervista anche un affettuoso cagnone, che avuto la sua dose di coccole gli si accuccia ai piedi.

Gli chiedo innanzitutto di raccontarmi qualcosa di Fondazione Accademia.

Michelangelo Tagliaferri: Chi viene in Fondazione Accademia impara un mestiere, proprio come quando si va in una bottega a vedere come facevano le scarpe una volta.

Io credo che i fondamentali della comunicazione rimangono fondamentali della comunicazione, anche se lavori in rete e usi i supporti digitali. Se vuoi trasgredire devi prima partire dalla conoscenza delle tue capacità vere e imparare le regole.

Fondazione Accademia è a numero chiuso, molto selettiva, offre sia corsi post diploma che master ed è posizionata bene a livello internazionale. Quest’anno nell’annuale e prestigioso concorso internazionale dell’ADeD inglese ben quattro gruppi hanno vinto il primo premio in Advertising e grafica, mentre l’anno scorso siamo stati insigniti dall’Art Director Club di New York del premio internazionale come la migliore scuola italiana di Pubblicità.

Ho intervistato qualche mese fa un vostro studente, Giuseppe Mastromatteo,  che sicuramente ricorderà come vostro brillante studente (e che io ricordo come brillante stagista in Young & Rubicam!)

Giuseppe è un “meraviglioso bandito” che ho molto amato…ma le cucciolate hanno dato molti altri talenti da Caparezza a Menda  o  Volpe o Massimo De Vitiis dei Neri per Caso…

Ai giovani che vogliono lavorare nel marketing o nella comunicazione che consigli possiamo dare?

Sostanzialmente due o tre cose fondamentali. La prima cosa è verificare veramente la loro attitudine. E le competenze per questa attitudine. A costo di martirizzarsi, di lavorare gratis, di stare in giro per il mondo, ma devono capire se la loro attitudine è veramente quella . E in che cosa consiste. Misurarsi nei limiti del possibile con vicende le più variegate, perché il marketing più essere anche “metto un banchetto in strada che nessuno ha mai venduto”. Ma devo sentirla questa cosa.

Quindi per capire qual è la loro attitudine devono sperimentare?

Ma certo. I giovani devono riflettere su di sé, non sui modelli di sé che gli vengono dati. Chiedersi ” cosa sento?  Mi piacerebbe o non mi piacerebbe?”. Io mi sono laureato in Diritto sono stato il primo a Milano a prendere la Laurea in Diritto delle comunità europee perché volevo lavorare in Europa, ma dovevo prima passare dal vaglio del praticantato di legge. Entravo al Tribunale di Milano ogni mattina alle 9 e, mi perdoni il termine, mi veniva da vomitare, e dopo tre mesi ho capito che non era la mia strada.

La mia prima vocazione era fare il sociologo e sono tornato a fare quello. Ho preso la seconda laurea in sociologia, e la mia vita è diventata la sociologia.

Innanzitutto scoprire la propria attitudine, e poi?

Data l’attitudine bisogna capire che cosa serve perché io possa avere le competenze per governare questa attitudine, guardando criticamente le competenze che mi vengono trasferite. Poggiare la propria formazione su scambi di competenze. Voglio che il mio docente mi dica che esperienze ha fatto, e mi deve proprio spiegare non tanto le case history, ma come questa parte teorica che mi sta spiegando l’ha applicata nella pratica della sua vita, cosa ci ha fatto o non ha fatto. Una teoria della prassi. Non fidarsi di nulla che non sia anche nella prassi.

Contemporaneamente però lo studente deve anche possedere una forte capacità di riflessione sulla teoria, quindi studiare. Non devono studiare quelli che scrivono cose che hanno già scritto altri, ma andare alla ricerca di scritti che sono in rete, che non ha mai letto nessuno. La rete è bellissima in questo, è fantastica.

Appendono un gancio in parete e salgono, qualche volta si perdono, a volte no, ma vanno a cercare linee più autentiche di studio. Devono continuare a studiare.

Lo sforzo più grande è identificare il falso dal vero, se loro dovessero commerciare oro o lavorare oro è la prima cosa che gli insegnano. Loro devono riuscire da soli.

In più fare bottega il più possibile, e andare in giro molto, anche a fare il pizzaiolo, non è importante.

La lingua inglese è una lingua franca, che si mettano in testa di imparare l’inglese. E non aver paura di affrontare l’avventura di tre quattro, cinque lingue.

Non aver paura della tecnologia, ma non diventando programmatori. Piegando il più possibile la tecnologia al loro disegno di progetto. Poi si chiamano dei programmatori e se non ci sono i soldi si va in rete, in open,  e sicuramente si trova qualcuno che partecipa al progetto. I giovani devono cavalcare questa cosa: la rete come ausilio dal punto di vista della connessione delle intelligenze, del trovare le risorse.

Infine un po’ di scaltrezza ci vuole, bisogna essere furbi. Ma non prendere le scorciatoie, e non confondere i fini con i mezzi, se devo raggiungere un fine il mezzo dev’essere coerente. Se voglio fare una cosa buona ho bisogno di coerenza ,anche nei mezzi che otterrò per realizzarla.

E poi non aver paura del lavoro, soprattutto se si lavora nel mondo della innovazione e della creatività. Ma in realtà in ogni lavoro c’è un elemento che è tuo; questo elemento che è tuo lo devi veramente amare, se lo ami veramente sei il più bravo a fare quella cosa. Altrimenti ognuno è fungibile,chiunque può prendere il posto di un altro. Invece no, devo fare in modo che il mio valore sia tale che prima di sostituirmi ci devono pensare due volte. Devo essere sempre in grado di dimostrare che sono il migliore della mia categoria, anche degli imbecilli. Ma il migliore della mia categoria! Mi scusi il paradosso.

C’è sicuramente una cosa in cui ciascuno di loro può eccellere.

È nelle lettere di San Paolo, un uomo di marketing eccezionale, quando dice che ogni uomo è diverso ed elenca: uno che è capace di curare, uno è capace di scrivere, uno è capace di parlare, perché ciascuno ha questa sua vocazione e questa attitudine e si deve mettere in ascolto

Se invece ti fai fuorviare dal rumore, non vai lontano. Non si può suonare ad orecchio,  a meno di essere veramente un talento come Pavarotti che cantava senza saper leggere la musica.

Oltre alla Fondazione, dove so che ormai  è coinvolto solo in minima parte, quali sono i progetti più recenti ai quali sta lavorando?

Coordino un apparato di ricerche che si occupa del rapporto tra enti pubblici e il cittadino, piccola cosa ma molto significativa.

Ho fondato insieme ad altri amici un’associazione che si chiama Il comunicatore italiano, associazione che lavora sulla web reputation ed è nata per nascere il sindacato degli specialisti in web. Vediamo troppo spesso che la gente sul web si inventa le notizie, per creare il ricatto. Non sono un bacchettone, ma non puoi dipendere da notizie senza fonti, dati a supporto. Riguarda la politica, ma anche il sistema delle aziende che spesso sono avvilite per un niente.

Una sorta di certificazione?

Sì una certificazione della qualità dei giornalisti e delle fonti: il dato dev’essere inoppugnabile, verificabile poi può essere commentato come si vuole, ma il dato dev’essere il dato.

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A proposito di stile e di estate

PB Avrei voluto fare un commento al post di Paola. Ma non resisto a prendermi un po’ più di spazio.
Il sig Armani ritiene che in estate non sia possibile muoversi senza un golfino di cachemire. Non occupa spazio (certe pashmine si tengono in un pugno), è confortevole e protegge da tutti i capricci della temperatura (aria condizionata, venticello in terrazza, brezza marina).

E anche quando gli inconvenienti del clima purtroppo trascendono party in barca e viaggi intercontinentali, ma si concentrano su trasbordi in metropolitana, riunioni con il cliente, convivenza con colleghi allergici alla doccia o che regolano l’aria condizionata a simulare il circolo polare artico, le regole di base non cambiano.

D’estate bisogna vestirsi a cipolla, essere (e sembrare) freschi e puliti.
Confermo che va bandita la tenuta da spiaggia con reggiseno a vista e pelle traslucida.
Il trucco va mantenuto leggero perché l’effetto Moira degli elefanti (o Cleopatra come era chiamata una celebre commessa della Rinascente, reparto lingerie) con matita che cola a mezzogiorno è inqualificabile.

Tutti quei magnifici tessuti stretch che ci fasciano come sirene durante l’inverno, vanno banditi d’estate: gli elastomeri sono pesanti e sintetici. Meglio i tessuti naturali. E se si amano le forme che seguono il corpo, senza strizzarlo in estate, scegliere capi in costina. A mio avviso la costina nel pullover da donna è confortevole come la maglia rasata ma ti rende molto più bella. Per i colori: preferire quelli chiari, luminosi, freschi.

Il nostro abbigliamento da lavoro deve ispirare ordine, stile, affidabilità.

Avete mai notato in riunione quelli che si vestono come le coriste del Festivalbar? Con tutto quel nero, quel lucido, quel tacco?

E sul lavoro certi eccessi di stravaganza vanno banditi: zeppe che paiono coturni, orecchini grandi come salvagente, corpetti da tigre del materasso saranno perfetti dopo le 21.

Perché bisogna ammetterlo: esistono brutti vestiti che non bisogna mettere MAI, ma esistono anche bei vestiti che non bisogna mettere nel posto sbagliato.

Il magnifico prendisole in ufficio diventa un orrore. E il tailleur pantalone in spiaggia lo mettono solo i camerieri.

Quindi d’estate in ufficio, se vedete allo specchio troppa pelle vuol dire che avete sbagliato: copritevi. La gambetta pelosa di quello dei sistemi informativi in bermuda tra PC e scrivania non si può guardare.

Per le donne occhio ai volumi: se siete senza maniche, no scollature, no minigonne.

Ma vi abbiamo mai parlato della efficacia di una certa camicia bianca? In voile, garza, popeline, piquet, jersey… ne esistono fantastiche versioni anche per l’estate!

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COME VESTIRSI D’ESTATE PER UNA RIUNIONE

PC La scorsa settimana ci ha regalato il primo giorno di caldo estivo e a Milano sono apparse le prime tenute da spiaggia (come ogni anno mi chiedo cosa faranno quelli che in Aprile mettono short e canottiera nella canicola di Luglio e Agosto).infradito in ufficio

Lo stesso giorno Bruno Ferrari, il guru fondatore dell’agenzia con la quale collaboro,  ci ha invitato a trasferirci  nel bellissimo giardino dell’agenzia per la prima riunione dell’anno en plein air. Guardando come stava bene senza cravatta, giacca o maglione e con la camicia slacciata, unica concessione che un uomo in un ambiente non formale può fare al caldo, mi è venuto da pensare che gli uomini tutto sommato rischiano meno di sbagliare rispetto alle donne, in fatto di abbigliamento estivo.

Ricordo infatti di aver avuto una discussione con la mia ex socia che sosteneva che in estate si può andare dal cliente con le infradito, purché eleganti (e ahimé lo faceva davvero). Io credo invece che il rispetto per i colleghi e in particolare per il cliente – se siete nella posizione di comunicatori con un committente – imponga certe regole di bon ton, ma soprattutto di buon senso.

Innanzitutto no alle trasparenze: vestitini, anche eleganti, che permettono una radiografia quando entrate in sala riunione mineranno la vostra credibilità. Infradito che sciabattono mentre accompagnate nei corridoi il cliente e striminzite canottiere senza una giacchina o un maglioncino distoglieranno l’attenzione da quanto volete dire (e in più è probabile che con l’aria condizionata vi prendiate anche un raffreddore).

Una ricerca di infojobs, la più importante società europea di recruiting online,  su cosa dà fastidio ai colleghi in ufficio mi  conforta  confermando che il 74% degli intervistati detesta le infradito, come anche bermuda, barba incolta e tatuaggi ostentati.

Ne esce un quadro piuttosto formale dove solo il 7% pensa che ognuno possa essere libero di indossare quello che preferisce, mentre l’87% ritiene che esistono regole di buon costume che vanno osservate sempre. A maggiore ragione se quel giorno dobbiamo partecipare a una riunione importante o se dobbiamo incontrare un cliente, visto che è un po’ come essere ospiti a casa d’altri e il galateo ricorda che la padrona di casa non deve mai essere la più elegante.

So che tanti nostri lettori sono inseriti nei reparti marketing e hanno a che fare con molte agenzie. Mi piacerebbe avere il loro parere, e scoprire se sono anni di “scuola Young & Rubicam” a rendermi troppo formale.

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I 15 modi per avere successo, senza usare il Fattore S

PC Il settimanale Sette di questa settimana commenta in copertina il preoccupante aumento di chi usa il Fattore S per avere successo, dove S sta per l’iniziale dell’epiteto che ben descrive chi ottiene dei risultati ignorando le esigenze altrui. In sintesi uno “S” – sostiene Aaron James nel suo trattato Stronzi, edito da Rizzoli – è qualcuno che come riassume D’Orrico: ” 1) si arroga sistematicamente privilegi che non gli competono; 2) agisce sulla base di un radicato senso di superiorità; 3) tale senso di superiorità lo rende del tutto immune alle lamentele.”stronzi

Per quanto io desideri il successo con la mia nuova vita professionale, questa strada per l’affermazione personale è troppo lontana dai miei principi e dalla mia indole. Ma avendo comunque deciso di impegnarmi a raggiungerlo ho cercato una guida alternativa. Ho trovato utile quest’articolo di Ilya Pozin, editorialista per Linkedin e Forbes, apparso in questi giorni su Linkedin Today e che vi sintetizzo.

Interessante (e consolante) il punto di vista di Pozin, che ritiene che il successo non possa che nascere dall’avere superato degli ostacoli e dall’essere quindi avezzi all’insuccesso. Infatti al primo posto tra i quindici comportamenti tipici di chi ha successo il primo è proprio:

1. Fallire. Può succedere, l’importante è non ignorare il fallimento, ma imparare dagli errori in modo da non compierli la volta successiva (sembra una banalità ma se ripenso ai principali errori della mia vita mi rendo conto che sono seriali, e voi?)

2. Stabilire degli obiettivi. Piccoli obiettivi tangibili che si possano raggiungere ogni giorno. Ad esempio riallacciare i rapporti con persone che potrebbero aiutarvi a trovare un lavoro, migliorare la conoscenza di una lingua che potrebbe esservi utile, …

3. Non affidarsi alla fortuna. Certo a volte succede di essere al posto giusto nel momento giusto, ma sono più le volte che dovete con tenacia, fatica e impegno guadagnarvi quello che meritate.

4. Controllare i vostri progressi. Monitorate l’efficacia dei comportamenti, strategie e tattiche, e poi decidete se c’è qualcosa che dovete modificare.

5. Agire.  Non restate mai in posizione di stallo, le persone di successo non restano ferme dopo un insuccesso, ma sono già impegnate a raggiungere un nuovo obiettivo.

6. Guardare al disegno nel suo insieme. E’ tipico di chi ha successo avere una visione ampia e saper inserire anche i piccoli dettagli in un insieme più ampio.

7. Mostrare un realistico ottimismo. Chi ha successo è il primo a credere nelle proprie abilità. Fate una lista delle vostre capacità, cercate se possibile di migliorarle, e cercate di capire quali risultati potete ottenere grazie alle vostre qualità.

8. Migliorarsi continuamente. Imparate dagli insuccessi, imparate a conoscere le vostre debolezze e cercate dei modi per fare meglio la volta successiva: in particolare migliorate la vostra capacità di fare rete.

9. Impegnarsi. Il successo arriva solo come risultato di impegno e duro lavoro.

10. Essere attenti. Se non siete aperti a cogliere anche i segnali deboli che vengono dall’ambiente difficilmente potrete cogliere le migliori opportunità: siate sempre al corrente di quanto si dice all’interno dell’azienda dove siete, tenete conto dei feedback dei clienti, tenetevi aggiornati sulle evoluzioni del settore nel quale volete inserirvi. Quanti giovani che vogliono lavorare nell’ambito della comunicazione o del marketing si abbonano alle newsletter gratuite che riassumono cosa succede nel mercato?

11. Perseverare. Le persone di successo non mollano mai

12. Comunicare con fiducia. Chi ha successo ha facilità nel convincere gli altri. Illuminante a riguardo il film sul Giovane Hitler che ho appena visto: ovviamente Hitler è anche un rappresentante della categoria “S”, della quale detiene sicuramente il primato, ma è spaventoso vedere cosa si può ottenere con una buona capacità oratoria. Ovviamente se non volete rientrare nella categoria “S” userete la comunicazione per convincere, e non per manipolare.

13. Mostrare umiltà. Le persone di successo riconoscono le loro responsabilità quando commettono un errore.

14. Essere flessibili. I piani possono cambiare, le persone di successo invece che essere frustrate dal cambiamento sanno assecondarlo.

15. Creare una rete. Chi ha successo riconosce che  i propri risultati derivano anche dall’aiuto degli altri. Non potete ottenere il successo da soli. Investite nella creazione di una rete di connessioni lavorative che vi saranno sicuramente utili.

Se con tutte queste indicazioni riusciamo a ottenere quello che desideriamo senza per questo calpestare gli altri penso che avremo già ottenuto un grande successo.

 

 

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Enzo Jannacci, Milano e noi

PB  La morte di Jannacci ha colpito tutti i miei amici.

Nelle e mail di questi giorni, nelle conversazioni, nell’attenzione ai suoi funerali in S Ambrogio, in tanti hanno deglutito con dolore per un lutto che ci ha toccato intimamente, anche se nessuno di noi lo aveva conosciuto al di là delle sue canzoni.

A  proposito di milanesità, dignità, operosità, attenzione agli ultimi e poesia Jannacci ha avuto parecchio da dire. Un giullare che era anche medico. Un artista che amava i marciapiedi più della ribalta.

Io compro spesso la rivista “Scarp del tenis” (i redattori sono proprio i barbun che vivono per strada: la avete mai letta?) che mi fa ritornare con i piedi per terra ogniqualvolta penso che la vita sia intollerabile perché non ho il telepass e mi tocca infilare il bancomat alla barriera dell’autostrada.

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