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Regola n°1: imparare a comunicare

PC Parliamo, parliamo… Ma non sappiamo spiegarci bene, così si intitola l’articolo di Sabelli Fioretti sull’ultimo Io Donna, che giustamente evidenzia che nell’era della comunicazione nessuno insegna a comunicare.

Credo che l’attenzione al saper comunicare sia particolarmente necessaria per chi vuole lavorare o già lavora nel campo del marketing e della comunicazione.

Chi si presenta a un colloquio verrà anche valutato per come sa spiegare il suo portfolio o curriculum: la figura del genio creativo solitario non esiste, il lavoro nel marketing e nella comunicazione è essenzialmente un lavoro di team, dove le capacità dialettiche sono importantissime.

Saper argomentare la propria posizione, infatti, che si tratti di difendere una proposta creativa al cliente o un innovativo progetto di marketing ai venditori riuniti nel temuto sales meeting è uno di quegli elementi che faranno la differenza nella vostra carriera.

Sono molti i fattori che impediscono, soprattutto quando si è agli inizi, di essere chiari e di spiegarsi bene, provo a riassumerne alcuni:

1. Parlare prima di aver pensato a cosa dire

Questo rende lunghe e poco coerenti le argomentazioni, mentre soprattutto nelle riunioni è fondamentale la sintesi e la chiarezza

2. Aver paura di parlare in pubblico

Per molti è fonte di ansia e rende confuse le argomentazioni. Bisognerebbe abituarsi cominciando da giovani, non importa se parlate alla riunione dell’oratorio o all’open day della scuola, ma solo facendo pratica si riesce a vincere la vera e propria paralisi che assale molti quando devono parlare davanti a tante persone. Sul Secondo libro dell’ignoranza (di John Lloyd e John Mitchinson) regalato a mio figlio ma abbondantemente spulciato durante i pin nic montani si dice che la paura di parlare in pubblico è la prima paura per diffusione!

3. Non saper ascoltare

Spesso si prepara la propria argomentazione prima ancora di aver ascoltato quanto dice l’altro. Saper ascoltare è il miglior modo per imparare a comunicare. Se un account, ad esempio, riesce ad usare le stesse parole usate dal cliente per spiegare il proprio punto di vista avrà già il vantaggio di utilizzare un linguaggio condiviso. Ascoltare è un’arte che richiede concentrazione e attenzione, ma anche quando ci sono entrambi non sempre è facile capire cosa intende l’interlocutore e rispondere in modo appropriato. Recentemente, in una riunione nella quale si parlava di possibili product placement, un cliente mi spiegava che sarebbero stati interessati a trasmissioni tipo l’ispettore Coliandro (famosa – ho scoperto dopo – serie noir televisiva, che non avevo mai sentito nominare prima). Quando alla fine ho voluto riepilogare le opportunità e l’ho definita l’ispettore Coriandolo l’ilarità è stata generale.

4. Non conoscere bene quello di cui si parlerà

Forse ho avuto modo già di ricordare un motto Young & Rubicam, che mi ha ripetuto più volte Marco Lombardi prima delle riunioni importanti: rehearse, rehearse, rehearse. Provare, provare e provare ancora quello che si deve presentare. La sicurezza acquisita ci permetterà di comunicare in modo fluente e persuasivo.

Se avete altri suggerimenti spiccioli su come migliorare la propria arte oratoria nella vita lavorativa di tutti i giorni raccontateceli!

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Come allenarsi a diventare un futuro leader

Daniele Molmenti, oro olimpico

PC Linkedin ha segnalato un articolo rivolto ai manager che devono selezionare nel gruppo che coordinano chi potrà diventare un leader. Sapere quali sono le caratteristiche che i manager valutano può però anche aiutare i giovani talenti a orientare il proprio comportamento in modo da rientrare nella categoria di chi farà carriera. Ecco quindi una sintesi dell’articolo.

1. I futuri leader conoscono bene il loro business e non si stancano mai di imparare. In più riescono a comprendere il legame tra quello che fanno e gli obiettivi più ad ampio raggio della società per la quale lavorano. 

2. Sono apprezzati e rispettati non solo dal loro capo ma anche dai colleghi e dalle persone con le quali lavorano (per esempio in un’agenzia di comunicazione è fondamentale valutare il rapporto che un account intrattiene con i creativi, in un reparto marketing è importante capire la relazione che il product manager riesce a intrattenere con agenzie, produzione e vendite.)

3. I futuri leader sono ambiziosi, vogliono avere nuove responsabilità, imparare cose nuove e ottenere maggiore riconoscimento. In poche parole non hanno paura di mettersi in mostra.

4. Sono abili nel lavorare con gli altri, nel formare partnership, nel raccogliere informazioni. I geni solitari possono essere molto creativi e ambiziosi, ma non saranno mai dei buoni leader.

5. Hanno il coraggio di prendere decisioni. Un futuro leader capisce che dopo il momento dell’analisi e della ricerca viene il momento in cui decidere con la propria testa.

È ovvio che un futuro leader deve anche trovare un ambito positivo dove poter dimostrare queste caratteristiche, e in questo risiede la responsabilità di chi è già leader, che dovrà favorire un clima di crescita, nel quale una sana ambizione, il desiderio di migliorare e la capacità di fare rete con gli altri reparti vengano apprezzate e non osservate con paura e sospetto come spesso purtroppo accade.

Trovate l’articolo originale a questo link: http://www.inc.com/samuel-bacharach/The-5-Traits-of-High-Potential-Employees.html

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La ricetta per avere successo in un contesto globalizzato

PC Trampolinodilancio sta generando un bellissimo clima di interesse nei confronti dei giovani talenti in molti dei nostri follower, che spesso mi segnalano contributi interessanti da condividere sul blog. Approfitto per ringraziare, tra i più assidui, Carlo e Susi, e Stefano Del Frate –  autore lui stesso di un blog (http://stefanodelfrate.wordpress.com) nel quale tratta di comunicazione in modo sempre coinvolgente e interessante – che mi ha  recentemente indicato un’utile intervista apparsa sul blog dell’Harvard Business Review.

Nell’intervista Anna Tavis, responsabile della selezione  della Brown Brothers Harriman, dà la sua personale ricetta per avere successo in un mondo sempre più globalizzato, dove fortunatamente non è più necessario lavorare a New York o nelle grandi città degli Stati Uniti ma i talenti vengono selezionati localmente per garantire una conoscenza della cultura autoctona.

Il consiglio a chi vuole cominciare la sua carriera in una struttura globale è di andare oltre la semplice formazione di business, che è semplicemente necessaria per passare una prima selezione, ma non sorprenderà nessuno.  Quello che sorprenderà e renderà interessante un giovane talento è che, in più, conosce tre lingue, o ha vissuto in quattro continenti diversi, o ha fatto qualcosa di diverso nella sua vita, dice Anna Tavis.

“Uscite, esplorate e andate oltre la cornice tradizionale e le tradizionali ricette e formule, e avrete successo.” Questa è la ricetta di Anna Tavis per avere successo in un contesto globalizzato, molto in linea con i suggerimenti raccolti in questi mesi nel corso delle interviste che abbiamo realizzato.

Nel suo contributo, che trovate a questo link http://blogs.hbr.org/video/2012/07/make-yourself-a-global-asset.html, c’è anche il racconto del percorso non lineare attraverso il quale è arrivata al ruolo che attualmente ricopre.

Ritengo che nella discontinuità in termini di formazione e carriera risieda spesso un  grande valore di apertura mentale che sicuramente un’azienda apprezzerà.

 

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Molto dipende dal ripieno

English: Moleskine notebook and diaries. Белар...

English: Moleskine notebook and diaries. Беларуская: Нататнік і штодзёньнікі Moleskine. (Photo credit: Wikipedia)

PB La scorsa settimana presso RobillantAssociati in via Vigevano a Milano  si è svolto un incontro piuttosto interessante.

Maria Sebregondi, Direttore Marketing di Moleskine, animava un incontro  per Talent Almanack, un progetto  che nasce intorno al tema del talento e di cui Paola ha dato notizia in un post dello scorso mese di giugno.

Maria Sebregondi parlava con misurata passione del famoso taccuino (sapete quel rettangolino nero, con l’elastico che sta in tutte le tasche di chi ha qualcosa da annotare) e di come si possa trasformare l’idea di un quaderno in una magnifica storia di creatività, di emozione e anche di business.

Se volete approfondire un bel caso di marketing, idee, coerenza e costruzione del valore della marca curiosate nella storia di Moleskine. Ma quello che mi ha colpito è stato soprattutto il parallelismo che ho colto tra il taccuino e la costruzione della propria storia (professionale).

Nato per accompagnare le escursioni di nomadi contemporanei, il quadernetto nero deve il suo successo a chi lo ha utilizzato. Tutto il suo valore, il suo contenuto emotivo, è legato al fatto che artisti, architetti, viaggiatori, poeti, scrittori abbiano su quelle pagine segnato i loro appunti, le loro note, i loro progetti.

Il valore di Moleskine (oltre ad essere un oggetto bello e pratico) è dato dalla qualità di quello che ci si scrive dentro. Dalla qualità degli occhi, dalla perizia delle mani di chi ha osservato e annotato.

Così per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro. La metafora della pagina bianca può parere poco originale, ma di fronte a una realtà complessa, a volte banale o addirittura ostile,  sarà l’approccio creativo, l’occhio vivace, la capacità di vedere oltre le apparenze a fare delle vostre prime esperienze lavorative l’esordio di una carriera di successo.

La scuola dovrebbe avere dato la struttura, gli strumenti, insomma un bel po’ di pagine bianche ben rilegate. Se la scuola è stata buona, la copertina sarà rigida, magari nera, con un elastico a proteggere le pagine. Ma il ripieno ora è tutto da costruire. Ed è fatto certo di paesaggi e opportunità, ma è soprattutto questione di sguardo. La qualità del vostro approccio farà la qualità del ripieno.

Alcuni video amatoriali di paesaggi paradisiaci sono desolanti e deprimenti, ma avete mai sentito la forza di un quadro come i mangiatori di patate di Van Gogh? Non è il paesaggio a raccontare la storia, ma è l’occhio e la mano di chi la descrive.

La signora Sebregondi, mentre una platea di ragazzi sedotti dalle sue storie chiedeva quali caratteristiche fossero necessarie per lavorare un una Azienda così eccitante, rispondeva (e magari se mi riesce prossimamente cercherò di intervistarla): scegliamo persone che ci somiglino, persone capaci di vedere le cose in modo diverso, capaci di vedere in una borsa e nel suo contenuto una raccolta della nostra identità.

Insomma è sempre questione di ripieno

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I giovani di oggi sono laureati senza futuro?

PCBellissimo articolo sui giovani di oggi riportato sull’Internazionale. Laureati senza futuro? No! Ma hanno capito che se lo devono costruire da soli.

Illustrazione del Guardian di Krauze

Illustrazione del Guardian di Krauze

Non è un’economia per giovani

4 luglio 2012

The Guardian Londra

I laureati di oggi saranno più poveri dei loro genitori, un fenomeno unico nella società del dopoguerra. Il fallimentare modello economico dell’occidente non è in grado di sfruttare le competenze tecnologiche di questa generazione perduta.

Mentre tenevo una lezione per gli studenti dell’Università di Birmingham mi è venuta in mente la frase “laureato senza futuro”. Ho tracciato un grafico delle aspettative tendente verso l’alto: qui c’è il vostro stipendio a 21 anni, poi ottenete aumenti di salario e la crescita del vostro patrimonio immobiliare; i vostri fondi pensione si riempiono e alla fine della curva vivete comodamente e c’è uno stato assistenziale che vi protegge se qualcosa va storto.

Ma questa era la vecchia curva, ho spiegato agli studenti. L’ho cancellata e ho illustrato quella nuova: gli stipendi non salgono; non potete avere un patrimonio immobiliare; l’austerity fiscale erode i vostri introiti; siete tagliati fuori dal sistema pensionistico della vostra azienda; dovrete aspettare di avere quasi 70 anni prima di andare in pensione e se le cose si mettono male non è detto che ci sia una rete di sicurezza a proteggervi.

Quando ho finito la mia lezione i ragazzi avevano il collo indolenzito a forza di annuire. Questa generazione di giovani istruiti è un fenomeno unico, almeno nella società del dopoguerra: sono i primi figli che saranno più poveri dei loro genitori. Hanno assistito a un aumento vertiginoso della disoccupazione giovanile – 19 per cento nel Regno Unito, 17 per cento in Irlanda, 50 per cento in Spagna e in Grecia – ma hanno anche vissuto una rivoluzione tecnologica e delle comunicazioni che avrebbe dovuto favorire i più giovani.

Da quando è esplosa la primavera araba – con fermenti che continuano ancora oggi, da Atene al Quebec – questo “tipo” sociologico è diventato protagonista. Il neolaureato di oggi, cui stata negata l’istruzione rilassata e liberale dei suoi genitori, è stato schiacciato fin dalla pubertà da un ingranaggio fatto di test psicometrici, inviti a eccellere e scelte forzate e limitanti.

Quando frequentavo l’università (Sheffield, 1978-81) avevo il tempo di suonare in un gruppo rock, manifestare davanti a un’acciaieria, occupare diversi edifici, scrivere romanzi e racconti di dubbia qualità, cambiare percorso formativo e chiedere la creazione di una speciale doppia laurea per realizzare il mio progetto di vita. “Puoi farlo se non lo dici a nessuno” mi disse all’epoca un mio professore. L’istruzione era gratuita e avevamo la sensazione di poter vivere tranquillamente a condizione di non passare dall’alcol alle droghe pesanti. Avevo un lavoro estivo in una fabbrica e guadagnavo quasi quanto mio padre.

Per garantirci un futuro migliore dobbiamo allontanarci da un modello economico che non funziona più. “Il laureato senza futuro” è soltanto un’espressione colorita di un problema economico serio: il modello occidentale ha fallito, perché non è in grado di creare abbastanza posti di lavoro di alto profilo per questa forza lavoro altamente qualificata. Oggi il bene essenziale – una laurea – costa talmente caro che ci vogliono decenni di lavoro poco remunerato per pagarlo.

Sono andato in giro per le università, per gli squat e negli accampamenti di protesta per parlare delle radici della crisi. Ho incontrato ragazzi animati da una psicologia pericolosamente nichilista, persino tra gli attivisti, e spesso sono stato costretto a dire cose come: “l’espressione ‘laureato senza futuro’ non significa che letteralmente non avete un avvenire”.

Ci sono sere in cui il mio account Twitter è pieno di racconti della generazione Occupy che parlano di stili di vita auto-distruttivi, spray urticante e udienze in tribunale.

Mente il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 50 per cento in alcuni paesi della periferia dell’Europa e la crisi si trascina da un anno all’altro, nella cultura giovanile serpeggia un senso di rassegnazione strisciante.

L’ideale anti-leadership e anti-strutturale che ha definito le lotte del 2009-2011 sta cominciando a vacillare. Dato che i movimenti di protesta sono costruiti per evitare l’emergere di un leader, questa generazione è costretta a radunarsi attorno ai pulpiti dei vecchi profeti: fa male osservare la grammatica barocca delle lezioni di Slavoj Žižek, Noam Chomsky, David Harvey e Samir Amin, un uomo con una barba bianca che pontifica davanti a ragazzini di 21 anni.

Spirito imprenditoriale

Ma ci sono anche lati positivi. Insieme ai resoconti delle loro proteste, i giovani attivisti che incontro mi parlano sempre dei loro progetti nel campo degli affari: hanno creato una rivista online (no, non è un collettivo, è un’impresa); hanno aperto un caffè; hanno fondato una compagnia teatrale o si sono impossessati – come in una fattoria andalusa che ho visitato – della terra abbandonata e hanno cominciato a piantare verdure. Tutti quei test, esercitazioni e lezioni pratiche hanno infuso un proficuo spirito imprenditoriale nella nuova generazione.

Così come hanno creato dal nulla forme di protesta innovative, molti di loro stanno creando forme di commercio, letteratura e arte che si sviluppano all’ombra della contrazione del Pil e della crisi del debito.

Questa è la prima generazione in grado di trattare la conoscenza come un software: disponibile per tutti, da usare, migliorare e magari anche buttare via. Possono acquisire rapidamente un livello di conoscenza che le precedenti generazioni raggiungevano soltanto al termine di un lungo processo. Ora tutto ciò di cui hanno bisogno è un modello economico che sappia sfruttare il potenziale umano creato dalle tecnologie.

Gli anni passano, e chi era appena entrato all’università nell’anno della Lehman Brothers oggi è al secondo anno di specializzazione post-laurea, o al secondo anno di disoccupazione. Ma intanto i laureati senza futuro hanno cominciato a capire che il futuro se lo devono costruire da soli. E se osservate bene, tralasciando le barbe incolte e le facce sbattute dopo le feste dissolute, vi accorgerete che sono sulla strada giusta.

Traduzione di Andrea Sparacino

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Gli errori più frequenti nei giovani di talento.

PC Il direttore di A, Maria Latella, scrive nel suo editoriale che ai giovani talenti serve spesso di più un lavoretto estivo, come cameriere o muratore, che uno stage, e tira le orecchie ai genitori con ansie da prestazione nei confronti dei figli.

Un suggerimento che mi sento come formatrice e selezionatrice di talenti di condividere in pieno, anche se come genitore, invece, mi rendo conto che molto spesso indirizziamo i nostri figli verso scelte che speriamo possano potenziare i loro talenti, più che fornire un’esperienza di vita. Ci hanno spiegato che dobbiamo riconoscere i loro doni e fare del nostro meglio perché li sviluppino, in modo da rinforzare la loro autostima, ma il rischio è di crescere una generazione incapace di accettare il fallimento. Non solo: ho trovato un interessante articolo che dimostra come il modello di overachievement che imponiamo ai nostri giovani talenti può addirittura influenzare negativamente la loro carriera (5 Mistakes That Cause Overachievers To Fail, Jennifer Gresham). Ne riporto i punti che ritengo più interessanti.

1. Bisogno di piacere

Abituati a sentirsi dire quanto valgono e quanto sono intelligenti, i giovani talenti sono spaventati nell’affrontare le sfide che implicano anche una remota possibilità di fallimento. Non solo hanno una reputazione da mantenere, ma sono letteralmente drogati di apprezzamento, affetto e ammirazione. Spesso confondono i simboli esteriori di successo – come ricchezza, potere e fama – con l’autorealizzazione e la felicità, e orientano la loro carriera per ottenere l’approvazione degli altri, invece che in base alle proprie aspirazioni più profonde.

Nel mio caso non posso certo criticare i miei genitori per aver lusingato eccessivamente le mie ambizioni: mia mamma ha sempre avuto un approccio teutonico all’educazione, e alla fine di ogni ciclo scolastico mi diceva di non illudermi che anche il successivo andasse bene, perché sarebbe stato sicuramente molto più difficile.

Malgrado ciò per anni ho avuto grossissime difficoltà a fare scelte che temevo potessero diminuire la mia “popolarità”. Un mio capo, Briano Olivares, ora direttore generale in Ferrero, mi ricordava sempre che “non si può piacere a tutti” e mi ha insegnato che spesso, anche nel lavoro di tutti i giorni, bisogna rinunciare alla diplomazia e al rassicurante piacere di essere amati e apprezzati, per prendere decisioni impopolari ma necessarie.

2. Paura di fallire

Legata al bisogno di piacere c’è spesso la paura di fallire, che porta a evitare di assumere rischi nelle proprie scelte lavorative.

I perfezionisti spesso accettano solo i lavori nei quali sono sicuri che potranno dimostrare le loro doti, e facendo così rinunciano a molte opportunità di carriera. Un vero successo nasce sempre da un’infinita serie di errori, che solo chi si mette in gioco compie.

3. Incapacità di fare un passo indietro

A volte per progredire verso la vera destinazione che ci darà successo e felicità è necessario fare un passo indietro, o di lato, come il cavallo degli scacchi, anche se questo può essere particolarmente difficile per i giovani talenti, abituati a un’immagine di vincenti.

4. Troppa impazienza

Il vero rischio di chi è intelligente e ha talento è di essere troppo impaziente. Abituati a ottenere facilmente il successo, i giovani talenti si arrendono troppo presto di fronte alle vere sfide e non capiscono che molti progetti richiedono tempo e pazienza. Bisogna imparare che il problema non è tanto se qualcosa si può fare, ma quanto tempo e quanta energia saranno necessari per portare a termine il compito.

Ho eliminato il quinto punto (troppe opportunità) che purtroppo non mi sembra particolarmente indicato all’attuale situazione del lavoro in Italia, ma mi piace molto, invece, come Jennifer conclude il suo articolo: con un invito a ricordare che la persona alla quale dovete piacere siete voi stessi. Se non vi aprite ai cambiamenti e alle sfide non proverete mai la soddisfazione di riuscire veramente. Se lo farete sarete più felici e l’unica persona che dovrete ringraziare sarete voi stessi.

E a volta la sfida può essere accettare un lavoro estivo come cameriere, dove il primo della classe si ritrova ad essere l’ultimo arrivato.

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Se volete cambiare carriera evitate questi 5 errori

PC Ci sono volte che leggendo un articolo ti senti chiamata in causa. È quanto mi è successo leggendo su Forbes il racconto di Kathy Caprino sugli errori che spesso si compiono quando si vuole cambiare carriera. Spero arrivi in tempo in modo che chi di voi si trova in questa situazione ne eviti qualcuno (io da parte mia ne ho già accumulati più di uno).

 1) L’effetto Pendolo: scappare dalla vostra attuale carriera perché non ne potete più

Se sei rimasta troppo tempo bloccato in un lavoro che non ti piace più fare è probabile che tu sia arrivato a odiare il lavoro stesso o i colleghi, e pronto a cadere nell’effetto pendolo. È esattamente quello che mi è successo nell’ultimo anno di Young & Rubicam. Ricordo come una delle sere più tristi della mia vita quella passata in una camera del Four Season di Chicago così grande da avere cinque telefoni (ero lì per seguire uno shooting Barilla in cui si vedevano vongole che applaudivano e spaghetti che cadevano nell’acqua bollente, ma sembrava che solo il regista di Chicago avrebbe potuto girarli così bene). Ero talmente nauseata dal tipo di lavoro e dal contesto che cenai da sola in camera. Per l’effetto pendolo ho deciso di fare un figlio, trasferirmi a vivere in un paesino di 900 anime e dedicarmi esclusivamente all’insegnamento. Ci sono voluti tre anni prima che il pendolo mi riportasse a desiderare un po’ di sana adrenalina, e altri anni ancora per approdare alla scelta imprenditoriale che mi permette di conciliare tempi di vita  umani con il lavoro nella comunicazione che amo. Ma la mia scelta troppo “di pancia” aveva fatto sì che  abbandonassi quasi tutti i contatti – convinta che non sarei più rientrata in quel settore – e ricostruirli è stato lento e faticoso (per fortuna grazie a Linkedin non impossibile).

La morale che trae Kathy è la seguente: non aspettate di essere disperatamente infelici nella vostra situazione per cambiare lavoro: cercate prima di migliorarla riaggiustando relazioni incrinate, pretendendo più rispetto, facendo sentire la vostra voce e crescere le vostre abilità e diventando più competenti. A quel punto, quando vorrete cambiare, sarete in grado di raggiungere un livello maggiore di successo.

2) Non sviluppare un solido piano finanziario che sostenga la vostra transizione

Non potete illudervi di cambiare carriera e guadagnare subito quanto prendevate nel posto precedente. Per questo è opportuno capire, anche con l’aiuto di consulenti esterni, quali siano le risorse necessarie per finanziare il cambiamento.

Se non avete i fondi necessari è meglio aspettare di avere accesso a fondi supplementari (sfruttare eventuali bonus, cercare di guadagnare di più nella carriera attuale, trovare un prestito, ecc.) o diminuire le spese in modo da accantonare quello di cui avrete bisogno.

3) Innamorarsi della forma sbagliata di lavoro

Prima di cambiare carriera devi identificare l’essenza di quello che vuoi fare.

Kathy invita a rispondere ad alcune domande per scoprirla:

  • quali abilità e talenti vuoi usare nella nuova carriera
  • con quali persone ti trovi meglio?
  • quali valori, standard di integrità e bisogni devono essere garantiti nel lavoro?
  • quali tipi di sfide vuoi affrontare nel nuovo lavoro?

Solo avendo contestualizzato l’essenza di quello che vuoi, potrai trovare la forma di lavoro che ti si adatta maggiormente. A me ci sono voluti parecchi anni di tentativi, se avessi capito prima davvero le mie esigenze, mi sarei probabilmente risparmiata dei lunghi periodi di insoddisfazione.

4) Non scavare abbastanza a fondo

Kathy dice che se per 10 anni hai lavorato nella produzione televisiva e vuoi dedicarti all’insegnamento, dovresti esplorare tutte le ragioni dietro a questa volontà di insegnare. Vuoi migliorare le tue abilità linguistiche, aiutare i giovani adulti ad avere più successo, allontanarti da un ambiente troppo politicizzato?

Dedicarsi all’insegnamento dell’inglese ti aiuterà davvero a trovare piena soddisfazione delle tue aspettative? Tutte le altre componenti del lavoro di insegnante ti piaceranno? È importante fare ricerca e approfondire tutti gli aspetti della nuova carriera che si sta intraprendendo.

5) Mollare troppo velocemente

Un ultimo errore è gettare troppo presto la spugna. Cambiare carriera implica fatica, tempo, impegno e spesso anche soldi. Non potete pretendere di vedere i risultati in pochi mesi.

Per cambiare carriera con successo, conclude Kathy, avete bisogno di quattro “C”: chiarezza, coraggio, confidence e competenza. Ne aggiungerei una quinta, il famoso fattore “C” di cui parlava già Stefano Battioni nell’intervista che gli abbiamo fatto.

Trovate l’articolo originale a questo link http://www.forbes.com/sites/kathycaprino/2012/04/14/the-5-biggest-mistakes-career-changers-make/2/

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Ognuno sta solo sul cuor della terra

Ragazza pensosa, sola in ascensore

Ragazza pensosa, sola in ascensore (Photo credit: Wikipedia)

PB  In un recente post di Paola, Paulo Bernini (Direttore creativo di Bitmama), a proposito della sua esperienza in Giappone, ha detto che laggiù ha imparato a stare da solo.

Io un po’ ho avuto freddo e un po’ mi sono sentita sola mentre leggevo (guardavo?) la scena e ho pensato che il commento non solo fosse bello e suggestivo, ma originale e pertinente per chi si avvia a una professione.

Imparare a sopravvivere soli è doloroso ma vitale.

Alle medie si va in bagno con la migliore amica, al liceo si inizia a fumare in tre (sempre in bagno), all’università si studia in gruppo, in gita si va con tutta la classe, in vacanza si parte in due (se si è innamorati) , in molti (se si spera di innamorarsi).

Poi arriva il momento di lavorare o di studiare – magari all’estero – in una città straniera.

Il mondo è diventato piccolo, le aziende locali cercano sbocchi internazionali, le multinazionali hanno filiali nei mercati locali.

I budget sono sempre più razionalizzati, nessuno si può più permettere di fare trasferte di gruppo, sono passati i tempi in cui, per presentare la nuova collezione a un cliente importante, partivano il marketing, il prodotto, lo stile, le vendite. L’ufficio viaggi organizzava la trasferta, procurava i biglietti aerei, prenotava l’hotel.

Ora, nella maggior parte dei casi, quello che prepara la valigia è da solo, in trasferta dovrà essere un po’ tutto (stilista e venditore), i voli se li è prenotati su internet e non dovrà avere paura (cioè avrà paura, ma dovrà fare finta di non averla) di essere a qualche migliaio di chilometri da casa, in un paese che conosce poco, per incontrare gente che non conosce affatto.

Io mi sono molto identificata nella sensazione di solitudine di cui parla Bernini: il disagio di mangiare da sola al ristorante, di orientarmi in città sconosciute, di riempire il tempo vuoto dal lavoro quando tutti i punti di riferimento familiari sono lontani.

Negli anni sono passata da baguette e camembert da sola in camera a scegliere sulla Lonely Planet ristoranti carini che mi somigliassero nei quali consumavo la cena leggendo un libro o scrivendo note sul mio diario (un diario è sempre una idea geniale: permette di fermare sensazioni altrimenti fuggitive e offre un meraviglioso riparo contro i seccatori).

Prima di partire cerco di avere il tempo di procurarmi una piantina  e di verificare la posizione del quartiere dove andrò, la presenza di qualche cosa di interessante in zona, di cui approfittare nel tempo libero.

Porto sempre un paio di scarpe comode, per potermi spostare a piedi, quando possibile, o addirittura in bici (a Copenhagen anche i business Hotel hanno il noleggio bici).

E poi ci sono sempre luoghi in cui, anche in giro per il mondo, io sento aria di casa: per me una chiesa cattolica (stesso profumo di incenso in tutto il mondo, sempre un altare in fondo alla navata), una bella libreria, un giardino pubblico. Altri tirano un sospiro di sollievo da Mc Donald o nel buio della sala di un cinema, oppure in piscina.

Ci sono trucchi e astuzie per sopravvivere alla malinconia dell’essere soli. Soprattutto per poi godersi la magnifica sensazione di avercela fatta, di avere conquistato un pezzo di mondo ma soprattutto un pezzo di sé stessi.

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