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Lavorare studiando: utile e adesso più facile

PC Il nuovo decreto per il lavoro prevede che i giovani universitari e anche gli iscritti alle scuole tecniche e professionali abbiano la possibilità di passare del tempo in azienda venendo sovvenzionati dallo Stato, se hanno una buona media universitaria e sono al di sotto di una certa soglia di reddito.

How you spend your 20s define your identity-Forbes

How you spend your 20s will define you-Forbes

Questa iniziativa riconosce un valore al fatto di lavorare mentre ancora si studia, valore del quale sono profondamente convinta.

È un tema che ha  recentemente affrontato  Annamaria Testa in un interessante post sul suo blog nuovoeutile.it, ricordando che durante un sondaggio svolto tra gli studenti del suo corso in Iulm era emerso che chi aveva già avuto delle esperienze di lavoro in parallelo allo studio otteneva dei risultati migliori all’università.

Sia Patrizia che io abbiamo lavorato per quasi tutto il periodo universitario, ed entrambe ne abbiamo sicuramente tratto dei vantaggi. Nel mio caso è fin troppo facile dire che mi è stato utile, visto che sono riuscita a entrare a 23 anni in Young & Rubicam, grazie a una borsa di studio che l’Assocom di allora metteva a disposizione dei giovani.

Il fatto stesso di dedicarmi in parallelo alle due attività permetteva di vedere in modo diverso sia le materie che studiavo in università, che i compiti che dovevo svolgere in agenzia, non tanto per le singole nozioni, quanto per l’acquisizione di un approccio mentale più ampio ed elastico.

Ma mi sono state altrettanto utili alcune esperienze totalmente diverse, anche saltuarie, come la vendita di libri durante la fiera campionaria (parenti e amici costretti ad acquistare a prezzi esorbitanti titoli che non avrebbero mai comprato in condizioni normali, pur di garantirmi la soglia minima sotto la quale non sarei stata pagata)e le lezioni di pianoforte a bambini svogliati e senza orecchio musicale. Con la prima ho dimostrato a me stessa che la timidezza poteva essere vinta grazie alla determinazione, con la seconda ho imparato la dote della pazienza (non tanto nel sopportare i bambini poco dotati, quanto nel gestire le aspirazioni delle mamme frustrate).

Credo che il vero vantaggio risieda nell’acquisire una certa dimestichezza a confrontarsi con altre persone dal punto di vista professionale: gli psicologi dell’analisi transazionale  direbbero che si impara a relazionarsi con i propri colleghi e superiori pariteticamente da adulti, non come bambini che temono il giudizio del genitore.

 

In più, come sottolinea un libro appena uscito – The Defining Decade di Meg Jay-  che consiglio ai più giovani (per gli altri il rischio è solo di avere dei rimpianti!) i vent’anni sono l’età in cui si crea il proprio capitale di identità (in questo articolo di Forbes una sintesi).

Quindi il mio consiglio è di approfittare delle nuove opportunità messe a disposizione della legge (speriamo presto) e in generale di cominciare lavorare appena possibile, un appello che rivolgo non solo ai giovani lettori ma anche ai loro genitori, che a volte inspiegabilmente considerano degradanti o dispersivi alcuni “lavoretti” che i ragazzi fanno durante gli anni dell’università. Siete dello stesso parere?

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Il giro del Sella che pare il giro della vita

PB Lo scorso 23 giugno mio marito (Erri) e alcuni amici hanno affrontato il giro in bicicletta del Sella. Quattro passi dolomitici, circa 60 km con un dislivello di 3000 metri.IMG-20130623-00095

Sei mesi di allenamento dopo l’ufficio, al sabato, spesso con il freddo di una primavera che non arrivava mai.

Bobo, uno dei cinque eroi, ha scritto il resoconto della giornata.

Mi pare che ci sia tutta la poesia e la metafora del sogno, della fatica, della caduta, della determinazione, della riuscita. Che vale per un giro in bicicletta ma anche per la nostra vita e il nostro lavoro.

Ecco il suo racconto (fatto per l’amico Max):

Ciao Max, solo adesso sono nella condizione di fare il punto sul giro, se hai 10′ leggiti il raccontino.
I partecipanti in parte li conosci: il sottoscritto… scarsa preparazione atletica e debilitato da un bastardissimo virus che ho sottovalutato, Enri che ormai passa il suo tempo in bicicletta, Eros con i suoi acciacchi fisici brillantemente superati, Paolino e il Biondino che sono due malati, ma non hanno la consapevolezza di esserlo… poi ti spiego.
Sintetizzo, il nostro bell’albergo è situato nel bel mezzo di un tornante in salita, quindi uscendo dal parcheggio hai due possibilità per iniziare la pedalata, sx in discesa dx in salita. Secondo te da quale parte abbiamo iniziato? Esatto, inizio il mio calvario iniziando a pedalare in salita intorno al 7/8% , rendendomi conto che in questo giro non c’è un fottutissimo metro in piano… ci avviamo così al primo passo, il Gardena, caratterizzato da un paesaggio spettacolare e infatti in poco meno di un’ ora scolliniamo. Qui ci perdiamo Enri, poi qualcuno trova la sua bici davanti ad un cesso, e capiamo che è chiuso lì dentro… il bambinone ha preso freddo al pancino e poco c’è mancato che non si è cagato addosso. Enri finalmente torna, foto di rito e si parte verso il discesone che ci porterà verso il secondo passo il Sella.
Durante queste lunghe discese con un asfalto perfetto, scopro di avere un talento naturale nel condurre la bicicletta, che non vuol dire mollare i freni incoscientemente a 80 kmh per poi inchiodare per affrontare i tornanti, ma mollare i freni a 80 kmh e sfiorarli appena percorrendo i tornanti impostato al doppio della velocità degli altri usando il peso del corpo per far girare la bici… E’ un concetto confuso mi rendo conto, però è così, le discese non sono state un problema anzi sono convinto che mi hanno tirato fuori dai momenti più bui, la scarica di adrenalina che ne scaturiva mi neutralizzavano i dolori, perchè i dolori ad un certo punto sono arrivati… cazzo se sono arrivati.
Il Sella è bellissimo ha un aspetto lunare, mi sono ricordato di averlo fatto in moto, ma in bici lo apprezzi ad un altro livello, lo affronto da solo ovviamente sono quello messo peggio di tutti quindi sono sempre l’ultimo, mi superano tutti… donne e uomini dai ventri smisurati. Incomincio ad avere dei dubbi, credo di avere sottovalutato la mia condizione fisica e non sono più così sicuro di arrivare alla fine, qui in prossimità del passo ci sono 14° tira un vento porco e il cielo è incazzato da far paura.
L’unica cosa che riesco a controllare è la frequenza cardiaca, bassa per i miei standard, e questo mi tranquillizza. Incontro Paolino sul passo e da quel momento, forse vedendomi in faccia, non mi ha più abbandonato, lui e il Biondino si sono alternati standomi al fianco nelle ultime due salite. Iniziamo la discesa, anche lui se la cava e in un quarto d’ora arriviamo al cartello che indica il passo Pordoi, il più lungo 27 o 28 tornanti. Al 22 tornante non ne ho più, mi devo fermare e sdraiare per rilassare i muscoli che interessano la zona cervicale e del trapezio. Capita che quando non hai più forza nelle gambe ti attacchi al manubrio e “tiri” coinvolgendo anche tutti i muscoli della schiena, trovo un muretto e mi fermo, mi sdraio e mi sforzo di mangiare una barretta energetica.
Faccio una telefonata parlo con moglie e bambino e questo mi procura sollievo. Sono sfinito, ho freddo nonostante stia pedalando in salita ho le mani ghiacciate, finalmente leggo il 27esimo tornate e vedo il passo, riconosco il luogo ho un bel ricordo di una vacanza con il bambino piccolo, riconosco anche le bici parcheggiate dei miei amici davanti ad un rifugio, sono sul Pordoi… entro prendo un tè caldo e cerco di scaldarmi le mani. Ovviamente i miei amici sono lì da più di un’ ora e mi sembrano molto rilassati, capisco che hanno una percezione della cosa molto differente dalla mia. Discesa, discesa finalmente la discesa, è come una pozione magica la lunga discesa che ci porterà ad Arabba mi riconcilia con il mondo, è una cosa pazzesca non ho più un dolore…
il senso di malessere sparisce completamente, bello.
Sono nel bel mezzo di una crisi, la più dura a circa due km dall’ultimo passo il Campolongo, sono quasi stordito da questo fiume di ciclisti colorati che mi gira intorno, sono bravi e attenti, se ti fermi anche per un minuto c’è sempre qualcuno che ti chiede come stai e ti incita ad andare avanti… non sono l’unico ad essere in crisi, diversi ciclisti ormai camminano di fianco alla loro bici. Prima di un tornante c’è il fotografo dell’organizzazione che mi sprona, faccio il tornante e mi pianto, ho dei dolori lancinanti a tutto il corpo e non ho più l’energia per fare un metro. Mi viene in soccorso il Biondino che mi propina una sorta di gel fluorescente, un alimento che usano gli sportivi, quelli veri, contiene caffeina, tutti i tipi di zuccheri e secondo me anche dell’ anestetico, serve per superare i momenti più duri con la consapevolezza di essere alla fine… lo bevo.
Da giovane ho avuto una modesta esperienza agonistica durata qualche anno, nel nuoto e nel basket, per quello che sono i miei ricordi il nuoto era il più duro, ricordo per esempio all’arrivo di alcune gare che prima di riprendere l’uso della parola passava qualche minuto, lo sforzo era molto intenso ti portava allo sfinimento, però tutta l’azione durava qualche minuto… qui lo sforzo è prolungato non c’è tregua a parte le magiche discese naturalmente.
Io non ho idea di che cosa mi abbia propinato il Biondino… fatto sta che i dolori sono spariti come del resto l’energia. Mi trascino fino all’ultimo passo i dolori sono tornati, sono sfinito, ho sonno, non riesco a stare in piedi devo dormire per qualche minuto, trovo una panca e mi sdraio, nel dormiveglia che ne segue vengo disturbato da un cameriere bulgaro che bofonchia qualcosa che ha a che vedere con il sonno prima della morte… sono così stanco che non ho neanche la forza di mandarlo a cagare.
Cerco l’ultima discesa come un tossico, chissà se torna l’effetto magico… 70,72,78 kmh si ecco che torna, che figata, Enri fa un dritto e quasi finisce a fare conoscenza con delle vacche al pascolo.
I pochi km di salita che ci separano da amici e parenti sono, neanche a dirlo, devastanti… al mio fianco c’è Eros che mi racconta che tutto sommato sta bene a me sembra in buone condizioni e ne sono contento.
Intravedo amici e famiglia che fanno il tifo, prendono giustamente per il culo etc. Mi dicono che ho un aspetto orribile, sono pallido, faccio fatica a scendere dalla bici e tremo dalla stanchezza…
Che senso ha tutto questo? Non ne ho la più pallida idea.
La cosa che ho capito è quanto può essere buio e profondo l’abisso da cui puoi uscirne appellandoti solo alla tua forza mentale, e parafrasando quell’allegrone di Max “fanculo ce l’ho fatta”

ps1- sono felice di non essere morto, affanculo il cameriere bulgaro dei miei coglioni, e di avere degli amici che mi hanno coccolato ed accudito come un infante.
ps2- potete immaginarvi il viaggio di ritorno, arrivato a casa sono praticamente svenuto sul divano, la dissenteria accompagnata da una simpatica febbriciattola mi ha accompagnato fino alla metà della settimana successiva… oggi è giovedì
mi sembra di stare un po’ meglio ed infatti mi è venuta voglia di raccontare i fatti.

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“Nutriti di curiosità, alleva il tuo talento e aggiorna la tecnica”. Intervista a Alessandro Modestino Fondatore e CEO Meloria Comunicazione.

PC  “Durante la lunghissima battaglia, i genovesi muniti di armature più ridotte e leggere ne furono chiaramente avvantaggiati…” con questa frase si riassume il perché di un nome,

Alessandro Modestino Fondatore di Meloria Comunicazione

Alessandro Modestino Fondatore di Meloria Comunicazione

Meloria, che potrebbe risultare criptico per chi non è nato a Genova . Un nome che esprime invece molto bene la filosofia di un’agenzia che fa della sua agilità e flessibilità un punto di forza rispetto a realtà più strutturate (anche se conoscendo i tagli di personale che tutte le grandi agenzie stanno realizzando mi chiedo se ha ancora senso questa contrapposizione).

Quello che più convince del suo fondatore, Alessandro Modestino, è l’enorme passione che riversa nel lavoro. Non è difficile comprendere come questa passione avesse bisogno di trovare uno sbocco imprenditoriale, dopo la necessaria esperienza in un’agenzia storica, come Leo Burnett.

Dopo due ore passate con Alessandro mi rendo conto che per la prima volta, da molti mesi, ho incontrato un professionista del settore che non si lamenta e non parla di crisi: che ventata d’aria fresca! Con l’augurio che il periodo d’oro che vive l’agenzia continui a lungo (il sovraffollamento delle due sedi di Genova e Milano è una conseguenza sicuramente accettabile!) e ci sia spazio per l’inserimento di nuovi talenti,  abbiamo quindi chiesto ad Alessandro di dirci quali caratteristiche deve avere un giovane per entrare in Meloria.

Alessandro Modestino: Dev’essere creativo e curioso. Il nostro settore corre veloce e chi non è curioso resta indietro. Il lavoro si può imparare ma l’attitudine spesso è innata. Per come abbiamo concepito l’agenzia, una giovane famiglia dove esprimere il proprio talento, saper lavorare in gruppo è fondamentale: ogni cliente può catalizzare cinque o sei risorse diverse ma il risultato finale deve essere omogeneo e definito. Per fare questo ci vuole molto coordinamento e grande apertura mentale.

C’è una persona che hai assunto che ti è rimasta impressa perché rappresenta le qualità che deve avere un candidato?

Due anni fa è entrato in Meloria un ragazzo che veniva da tutt’altra esperienza. Ma aveva un’incredibile passione per questo lavoro. Non era più giovanissimo ma decisi di dargli fiducia su un progetto abbastanza semplice in termini di brief. Non mi convinse. Quando condivisi con il resto del team la decisione di non confermarlo ricevetti una skype call con tutti i suoi colleghi schierati che mi chiedevano di dargli un’altra opportunità. Oggi è una colonna portante della nostra agenzia. Non ha mai smesso di crescere ed è stato il primo “man of the year” Meloria.

Un consiglio su come affrontare un colloquio di lavoro?

Essere se stessi perché il colloquio di lavoro non è solo un’occasione per il candidato per farsi conoscere ma anche per scegliere l’azienda e il clima che fa per lui e dove poter esprimersi al meglio. In questo senso essere proattivi, studiare l’azienda e dare il proprio punto di vista sui lavori fatti… andate a fare il colloquio per fare il colloquio all’azienda.

In quale settore del marketing ci sono maggiori prospettive di sviluppo per i giovani al momento?

Sarebbe banale dire tutto ciò che è social e digital. Ma quello che conta e che davvero sta cambiando è l’atteggiamento “digital”: trasversalità, multicanalità, la capacità di mettersi in discussione e cambiare per comprendere al meglio il target. Ascoltare.

Quale consiglio potresti dare a un giovane che voglia entrare nel mondo del marketing e della comunicazione?

Se sei preparato al peggio non è poi un lavoro così brutto. Scherzi a parte ci vuole più preparazione di quello che sembra. Nutriti di curiosità, alleva il tuo talento e aggiorna la tecnica.

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INTERVISTA A MICHELANGELO TAGLIAFERRI, SOCIOLOGO E FONDATORE DI ACCADEMIA DELLA COMUNICAZIONE

PC “C’è una persona a un certo punto.

C’è sempre una persona che a un certo punto, magari senza volerlo, dirige la vostra vita, le fa prendere una piega piuttosto che l’altra. Soprattutto quando siamo giovani. Può essere qualcuno di molto vicino, o anche un estraneo. Qualcuno che ci vive sempre accanto o che vediamo una volta sola ma in un modo così intenso che ci lascia il segno. Non si può dire. In ogni caso è una persona che noi chiameremo maestro, anche se di fatto non ci avrà insegnato niente.”  (Paola Mastrocola, Non so niente di te, Einaudi).tagliaferri-300x130

Le parole, lette ieri sera, della mia omonima, insegnante e scrittrice, spiegano molto meglio di quanto io saprei fare il mio debito di riconoscenza con Michelangelo Tagliaferri, che avendomi come alunna all’Istituto Europeo di Design, vista la mia passione per la materia che insegnava – sociologia- mi disse: “tu non puoi non fare l’università.” Gli diedi retta, mi iscrissi in parallelo al corso in Ied anche all’università e mi innamorai della sociologia. La mia passione per lo studio di questa materia mi è stata molto utile per approcciare l’analisi dei target, delle marche e della comunicazione, che sono anche ora il cuore del mio lavoro, e l’approccio universitario mi ha aperto la mente.

Lo incontro dopo quasi trent’anni, con una certa soggezione, a un convegno sull’EXPO2015 (di cui è consulente), dove tiene con nonchalance un intervento metà in francese (il convegno è organizzato dal Consolato Svizzero) e metà in inglese. Ovviamente non si ricorda di me, mentre io lo trovo identico a trent’anni fa. Mi spiega che il trucco è farsi crescere da giovani una folta barba e poi tenerla uguale negli anni. La gente si focalizza su quella e ti trova sempre identico (e anche questo è personal branding!). Gli chiedo di rilasciarmi un’intervista per trampolinodilancio, con pronta gentilezza accetta e mi riceve dopo qualche giorno nella sede di Fondazione Accademia, la fondazione responsabile di quella che prima era Accademia di Comunicazione, una delle più esclusive scuole di comunicazione e marketing d’Italia, da lui fondata l’anno dopo che io finii lo Ied.

Partecipa all’intervista anche un affettuoso cagnone, che avuto la sua dose di coccole gli si accuccia ai piedi.

Gli chiedo innanzitutto di raccontarmi qualcosa di Fondazione Accademia.

Michelangelo Tagliaferri: Chi viene in Fondazione Accademia impara un mestiere, proprio come quando si va in una bottega a vedere come facevano le scarpe una volta.

Io credo che i fondamentali della comunicazione rimangono fondamentali della comunicazione, anche se lavori in rete e usi i supporti digitali. Se vuoi trasgredire devi prima partire dalla conoscenza delle tue capacità vere e imparare le regole.

Fondazione Accademia è a numero chiuso, molto selettiva, offre sia corsi post diploma che master ed è posizionata bene a livello internazionale. Quest’anno nell’annuale e prestigioso concorso internazionale dell’ADeD inglese ben quattro gruppi hanno vinto il primo premio in Advertising e grafica, mentre l’anno scorso siamo stati insigniti dall’Art Director Club di New York del premio internazionale come la migliore scuola italiana di Pubblicità.

Ho intervistato qualche mese fa un vostro studente, Giuseppe Mastromatteo,  che sicuramente ricorderà come vostro brillante studente (e che io ricordo come brillante stagista in Young & Rubicam!)

Giuseppe è un “meraviglioso bandito” che ho molto amato…ma le cucciolate hanno dato molti altri talenti da Caparezza a Menda  o  Volpe o Massimo De Vitiis dei Neri per Caso…

Ai giovani che vogliono lavorare nel marketing o nella comunicazione che consigli possiamo dare?

Sostanzialmente due o tre cose fondamentali. La prima cosa è verificare veramente la loro attitudine. E le competenze per questa attitudine. A costo di martirizzarsi, di lavorare gratis, di stare in giro per il mondo, ma devono capire se la loro attitudine è veramente quella . E in che cosa consiste. Misurarsi nei limiti del possibile con vicende le più variegate, perché il marketing più essere anche “metto un banchetto in strada che nessuno ha mai venduto”. Ma devo sentirla questa cosa.

Quindi per capire qual è la loro attitudine devono sperimentare?

Ma certo. I giovani devono riflettere su di sé, non sui modelli di sé che gli vengono dati. Chiedersi ” cosa sento?  Mi piacerebbe o non mi piacerebbe?”. Io mi sono laureato in Diritto sono stato il primo a Milano a prendere la Laurea in Diritto delle comunità europee perché volevo lavorare in Europa, ma dovevo prima passare dal vaglio del praticantato di legge. Entravo al Tribunale di Milano ogni mattina alle 9 e, mi perdoni il termine, mi veniva da vomitare, e dopo tre mesi ho capito che non era la mia strada.

La mia prima vocazione era fare il sociologo e sono tornato a fare quello. Ho preso la seconda laurea in sociologia, e la mia vita è diventata la sociologia.

Innanzitutto scoprire la propria attitudine, e poi?

Data l’attitudine bisogna capire che cosa serve perché io possa avere le competenze per governare questa attitudine, guardando criticamente le competenze che mi vengono trasferite. Poggiare la propria formazione su scambi di competenze. Voglio che il mio docente mi dica che esperienze ha fatto, e mi deve proprio spiegare non tanto le case history, ma come questa parte teorica che mi sta spiegando l’ha applicata nella pratica della sua vita, cosa ci ha fatto o non ha fatto. Una teoria della prassi. Non fidarsi di nulla che non sia anche nella prassi.

Contemporaneamente però lo studente deve anche possedere una forte capacità di riflessione sulla teoria, quindi studiare. Non devono studiare quelli che scrivono cose che hanno già scritto altri, ma andare alla ricerca di scritti che sono in rete, che non ha mai letto nessuno. La rete è bellissima in questo, è fantastica.

Appendono un gancio in parete e salgono, qualche volta si perdono, a volte no, ma vanno a cercare linee più autentiche di studio. Devono continuare a studiare.

Lo sforzo più grande è identificare il falso dal vero, se loro dovessero commerciare oro o lavorare oro è la prima cosa che gli insegnano. Loro devono riuscire da soli.

In più fare bottega il più possibile, e andare in giro molto, anche a fare il pizzaiolo, non è importante.

La lingua inglese è una lingua franca, che si mettano in testa di imparare l’inglese. E non aver paura di affrontare l’avventura di tre quattro, cinque lingue.

Non aver paura della tecnologia, ma non diventando programmatori. Piegando il più possibile la tecnologia al loro disegno di progetto. Poi si chiamano dei programmatori e se non ci sono i soldi si va in rete, in open,  e sicuramente si trova qualcuno che partecipa al progetto. I giovani devono cavalcare questa cosa: la rete come ausilio dal punto di vista della connessione delle intelligenze, del trovare le risorse.

Infine un po’ di scaltrezza ci vuole, bisogna essere furbi. Ma non prendere le scorciatoie, e non confondere i fini con i mezzi, se devo raggiungere un fine il mezzo dev’essere coerente. Se voglio fare una cosa buona ho bisogno di coerenza ,anche nei mezzi che otterrò per realizzarla.

E poi non aver paura del lavoro, soprattutto se si lavora nel mondo della innovazione e della creatività. Ma in realtà in ogni lavoro c’è un elemento che è tuo; questo elemento che è tuo lo devi veramente amare, se lo ami veramente sei il più bravo a fare quella cosa. Altrimenti ognuno è fungibile,chiunque può prendere il posto di un altro. Invece no, devo fare in modo che il mio valore sia tale che prima di sostituirmi ci devono pensare due volte. Devo essere sempre in grado di dimostrare che sono il migliore della mia categoria, anche degli imbecilli. Ma il migliore della mia categoria! Mi scusi il paradosso.

C’è sicuramente una cosa in cui ciascuno di loro può eccellere.

È nelle lettere di San Paolo, un uomo di marketing eccezionale, quando dice che ogni uomo è diverso ed elenca: uno che è capace di curare, uno è capace di scrivere, uno è capace di parlare, perché ciascuno ha questa sua vocazione e questa attitudine e si deve mettere in ascolto

Se invece ti fai fuorviare dal rumore, non vai lontano. Non si può suonare ad orecchio,  a meno di essere veramente un talento come Pavarotti che cantava senza saper leggere la musica.

Oltre alla Fondazione, dove so che ormai  è coinvolto solo in minima parte, quali sono i progetti più recenti ai quali sta lavorando?

Coordino un apparato di ricerche che si occupa del rapporto tra enti pubblici e il cittadino, piccola cosa ma molto significativa.

Ho fondato insieme ad altri amici un’associazione che si chiama Il comunicatore italiano, associazione che lavora sulla web reputation ed è nata per nascere il sindacato degli specialisti in web. Vediamo troppo spesso che la gente sul web si inventa le notizie, per creare il ricatto. Non sono un bacchettone, ma non puoi dipendere da notizie senza fonti, dati a supporto. Riguarda la politica, ma anche il sistema delle aziende che spesso sono avvilite per un niente.

Una sorta di certificazione?

Sì una certificazione della qualità dei giornalisti e delle fonti: il dato dev’essere inoppugnabile, verificabile poi può essere commentato come si vuole, ma il dato dev’essere il dato.

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CINQUE CONSIGLI DI ALDO GRASSO PER LA TV CHE VALGONO ANCHE PER LE PRESENTAZIONI

PC Sul Corriere di Venerdì Aldo Grasso dà dei consigli (non richiesti) ai grillini che dovranno andare in tv per cercare di rimediare ai risultati insoddisfacenti delle ultime amministrative. Mi sembrano cinque spunti molto utili anche per chi deve organizzare una presentazione efficace. listen

1. attirare l’attenzione degli spettatori con l’uso di immagini, creando quasi degli oggetti mentali. Evitare astrattezza, ragionamenti astrusi e paroloni;

2. evitare la gergalità: spesso si cerca di nascondere la paura di parlare in pubblico dietro alla sicurezza data dal riciclare frasi fatte e semplicismi;

3. evitare la monotonia. Aggiungere coloriture, esempi, usare il linguaggio del corpo, sottolineare con i gesti (pochi ma efficaci) quanto si sta dicendo;

4. concentrarsi su pochi concetti. La memoria del pubblico (come quella del vostro cliente o superiore al quale presentate un progetto) è limitata. Troppi concetti non fanno che confonderlo. Meglio ripetere, in modo sempre diverso e accattivante, i pochi concetti che si vuole trasferire;

5. avere qualcosa da dire. Troppo spesso si va da un cliente o un superiore senza una vera soluzione al problema che si doveva affrontare, e neppure la migliore esposizione può supplire alla mancanza di contenuti.

Infine Aldo Grasso aggiunge – ed è secondo me la regola più importante di tutte – che “non bisogna essere, o almeno non dimostrare di essere, indifferenti alle sollecitazioni degli interlocutori. Le contestazioni, le puntualizzazioni, le manifestazioni di diversità vanno accettate di buon grado.”

Come mi consigliava pochi giorni fa un amico: se sei preoccupato su come comportarti in una riunione con un nuovo possibile cliente perché vuoi dare un’ottima impressione, non pensare a cosa dovrai dire per apparire la persona ideale per quel progetto, ma concentrati sull’ascoltare cosa ha lui da dire a te.

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Miseria e Nobiltà: precaria di qualità

PB  Noi abbiamo un’amica, la Susi, che ha nel precariato una fede incrollabile.

Con intellettuale portamento  si destreggia, possibilmente malpagata, tra mestieri di ogni natura, preferibilmente avulsi dalla sua formazione.

Se sono stravaganti e un po’ masochisti, meglio.

In una formidabile gimcana tra ambizioni mal riposte , sogni spezzati, crisi economica, un caratterino che guai a dirglielo, un buon numero di filibustieri sulla sua strada (e un istinto per andarli a cercare) ha, dopo una laurea conseguita con lode, fatto i seguenti mestieri:

  • hostess      alle fiere (con piede che al mattino è un 37 e a sera è un 41, anche in      larghezza)
  • promotrice      di Limoncello al ristorante (il papà era nel ramo liquori)
  • account      in agenzia di pubblicità (propose per alcune linee di sanitari in ceramica      i nomi “chiasmo” e “sineddoche”: il cliente ancora la detesta abituato a vasca “Leda” e bidet “cigno”)
  • organizzatrice      di concerti hip hop (in quel periodo passò dalla gonna blu a piegoline al jeans lacerato con il chiodo)
  • speaker      ai concorsi di cavallo (la domenica me la immagino con il nastrino bianco delle scommesse come nella Stangata con Paul Newman)
  • PR      in azienda fashion (non seppe gestirle con il suo capo, che considerava un inetto, e se ne andò preferendo il solito filibustiere)
  • Organizzatrice      eventi per ottici al MIDO (ma la sua vera emancipazione la visse quando passò alle lenti a contatto: il disamore per il prodotto fu evidentemente percepito dai componenti l’associazione)
  • Insegnante      ripetizioni per materie che ha dimenticato e le tocca ripassare.

L’altro giorno ci siamo sentite. In questo periodo di crisi nera, le sue formidabili vicende professionali si esprimono al meglio: è entrata in una pizzeria che cercava una “ragazza” che servisse ai tavoli. Periodo di prova 2 settimane a 4 euro all’ora (negoziate con un colpo di reni a 5 euro dato che si trattava di un nero che più nero non si può).

Il locale era  in linea con la retribuzione: location periferica, menu dozzinale, clienti latitanti. Forse una cameriera laureata, con inglese e francese fluenti (le numerose vacanze all’estero in tempi più floridi e il diploma alla Sorbona garantiscono) automunita, di aspetto gradevole poteva dare un po’ di lustro al locale e garantire a Susi una stabile e allegra professione tra capricciose e margherite.

Finita la prova (ci siamo skipate l’altro giorno) è stata lasciata a casa. Hanno preferito un’altra ragazza perché sapeva portare più piatti contemporaneamente.

A parte che dovrei pagare un fee a Susi su questo post (quando mi ha raccontato della pizzeria mi sono sbellicata dalle risate), ormai lei è diventata il nostro Marchio della precarietà.

Un consiglio: se dovete per forza essere precari, fatelo almeno come la Susi: stravaganti, creativi, improbabili, divertenti.

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“I VALORI DELLO SPORT AIUTANO ANCHE NEL LAVORO.” INTERVISTA A PIETRO ALLIEVI, BUSINESS DEVELOPMENT IN ADIDAS

PC Una chiacchierata con Pietro Allievi è un rifornimento di energia che ricarica per tutto il giorno. Mi faccio raccontare tutte le esperienze che ha fatto prima di entrare nel team

Pietro Allievi Business Development in Adidas

Pietro Allievi Business Development in Adidas

Business Development South Europe in Adidas e faccio fatica a prendere nota: durante i tre anni della laurea di primo livello in Iulm fa uno stage come strategic planner in Young & Rubicam, uno stage in Unicredit,  lavora come assistente al corso IT dello Iulm stesso e fonda la squadra di golf universitaria. Poi decide di non fare il biennio di specializzazione, e per un paio di anni si occupa di marketing e vendite presso un tour operator. Lì capisce che gli manca una formazione più allargata e si iscrive al Master  in “Imprenditorialità e Strategia” della Sda Bocconi, alla fine del quale non è sicuramente difficile ottenere dei colloqui, duranti i quali è però fondamentale dimostrare al meglio le proprie doti.

Trampolinodilancio: Cosa pensi sia stato più utile durante il colloquio che ti ha portato in Adidas?

Pietro Allievi: In quel colloquio, come in quelli che ho fatto parallelamente in L’Oréal e Unilever, davano per scontate – venendo da un Master ritenuto solido – le competenze tecniche. Hanno invece valutato le competenze attitudinali. Sono alla ricerca di una “materia grezza” da poter far crescere in base alle esigenze dell’azienda. Quello che interessa infatti è la forma mentis, soprattutto quando si è alle prime esperienze lavorative, e non serve fingersi diversi da come si è. Tra l’altro se si è se stessi si è a proprio agio durante tutto il colloquio. Capiscono subito se stai recitando una parte. Nel mio caso penso sia stata apprezzata la curiosità e la proattività che ho dimostrato facendo molte domande sull’azienda e sul settore di riferimento. Un’altra cosa che penso sia fondamentale è raccogliere molte informazioni su fatturato, trend, mercato prima del colloquio. Arrivare preparati è anche importante per capire meglio cosa ti dicono e capire com’è realmente l’ambiente. Ricordiamoci che le aziende ci scelgono, ma anche noi dobbiamo avere la consapevolezza se quell’azienda/posizione è quella dove possiamo esprimerci al meglio. Il colloquio è un buon momento per trovare risposta alle proprie domande.

Raccontaci meglio in cosa consiste il tuo lavoro attuale in Adidas

Il team in cui lavoro riporta direttamente all’Amministratore Delegato, siamo come dei consulenti interni su vari aspetti: dalle vendite, al marketing, dallo sviluppo di piani globali a livello locale alla gestione di processi chiave aziendali, primo tra tutti quello del “Go To Market”. Un’opportunità magnifica per imparare a leggere i dati di tutta l’azienda e sapere come interpretare le diverse situazioni, un bagaglio che mi porterò dietro, davvero utile anche in futuro.

Interessante anche il fatto che lavoriamo in ottica di lungo periodo: infatti il progetto principale di cui sono responsabile è il processo di formazione e di implementazione del piano strategico a cinque anni per tutti i 12 mercati che fanno parte dell’area South Europe.

Cosa ti ha insegnato il tuo primo capo?

Il mio primo capo è l’attuale brand manager di Adidas, Alessio Crivelli con il quale ho condiviso fisicamente la scrivania per alcuni mesi e che mi ha insegnato ad approcciare il lavoro come lo sport. Alessio è infatti uno sportivo, ex campione di pallanuoto, che mi ha trasmesso l’onestà, la precisione, la puntualità e la capacità di affrontare con serenità quello che avviene sul lavoro, tutte caratteristiche che uno sportivo deve possedere.

In più ho sempre apprezzato in lui la capacità di premiare chi porta nuove idee (a prescindere se percorribili o meno) e chi ci mette del proprio. Come nella pallanuoto non bisogna stare in disparte, bisogna avere il coraggio di prendere la palla e poi giocare per la squadra, che è un altro insegnamento fondamentale che mi ha trasferito.

Cosa ti ha insegnato il capo che consideri tuo mentore?

Ci sono molte persone che mi hanno fatto crescere e dalle quali ho imparato cose diverse, ma tutte molto utili: da Massimo Carnelli la tranquillità di ragionamento e la capacità di approfondire; da Simone Santini (mio attuale responsabile) la proattività che ti porta a “fare le cose” e non a lasciare le idee su una bella presentazione.

Da Jean Michel Granier, amministratore Delegato di Adidas South Europe e mio mentore durante il training programme quando sono entrato in Adidas, come avere una visione a 360° di tutta l’azienda e anche dei mondi che si collegano all’azienda, senza perdere però l’attenzione al dettaglio. È come quando in una partita di biliardo devi sempre avere in mente il colpo successivo. Quindi devi fare il colpo e farlo bene, con efficacia e precisione, ma senza perdere d’occhio l’intera partita.

In più mi ha insegnato il valore dell’umiltà, che è fondamentale per muoversi all’interno di un’organizzazione.

C’è infine qualcosa che vorresti aver studiato in più o di più nel tuo percorso scolastico?

Soprattutto nella laurea triennale mancano dei corsi sulle soft skill, che spieghino quali sono gli atteggiamenti più corretti nelle diverse situazioni, a partire dalle cose più semplici. Ci sono ragazzi che non sanno come rivolgersi alle persone, che hanno paura di esporsi.

In più ai giovanissimi consiglio di cercare di restare in contatto con le persone che ti possono insegnare qualcosa, come ho fatto a partire da Marco Lombardi, mio professore in Iulm e capo in Young & Rubicam. Un consiglio o un confronto con persone di cui si ha stima, come ho di Marco, ti apre la mente e risulta sempre utile tanto nella vita quanto nelle decisioni importanti che bisogna prendere. Capire e farsi aiutare dall’esperienza delle altre persone da un valore aggiunto impagabile.

Contatto LinkedIn: it.linkedin.com/in/pietroallievi

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Prospettiva generazionale sul lavoro

7043c34ebcd4afc47ccfe1f77a86450bPC Trovo adorabile questa foto che gira su Facebook. Sono molto coinvolta in quanto grande fan di Kevin Bacon fin dai tempi di Footloose, visto con entusiasmo adolescenziale anche se dal punto di vista anagrafico non lo ero già più, e ritrovato recentemente nell’avvincente The Following. E la trovo purtroppo molto vera nella prima parte, perché la sensazione generale è proprio che manchi denaro, speranza e lavoro in ogni generazione, sia tra i miei coetanei baby boomer (esclusi solo i fortunati già in pensione, che però si ritrovano ad aiutare figli e nipoti), sia tra la generazione X, sia ovviamente tra i giovani della Generation Y.

Non credo però che non esistano più persone in grado di iniettare energia, idee, dinamismo nella società e nel mercato del lavoro come ha fatto Steve Jobs. Ed è più facile che queste persone siano proprio tra i giovanissimi Y. Per questo penso che sia indispensabile che almeno loro non perdano mai la speranza che Cash e Jobs arrivino meritatamente, in particolare a chi dimostra spirito di iniziativa e adattabilità.

 

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Mamma che paura!

PB   L’altra settimana Paola era alla ricerca , per una azienda importante di largo consumo, di un candidato per uno stage all’estero.

Contattati tre o quattro validi talenti tra i ragazzotti che ci capitano tra le mani (un po’ come Raffa a “The Voice”), in alcuni casi un sano terrore (Estero?! Mi sono appena fidanzata!) ha pervaso le risposte.

Avere paura è normale: io ho avuto un sacco di volte paura. Semplicemente dobbiamo sopportarla, esorcizzarla, camuffarla e soprattutto non rinunciare mai a fare qualcosa per colpa della paura.

La cosa più difficile che abbia mai fatto nella mia vita è stata prendere la patente (più dell’esame di latino con Cavaioni con traduzione di Tacito a vista).

Come si usava negli anni ’80, un affabile papà (con bava alla bocca e ghigno sardonico) mi urlava di schiacciare l’acceleratore (io effettivamente ero dinamica come un bradipo) anziché svernare all’uscita di un incrocio o nel parcheggio della Metro.

Quando lo ho poi schiacciato (troppo, evidentemente) mi sono schiantata contro un marciapiede (curva a destra) disintegrando due gomme (mio papà aveva la jeep Campagnola).

Quando ho avuto più paura di mio padre che della macchina (la questione delle gomme aveva reso meno gradevoli le lezioni) ho finalmente ottenuto la patente. Ho fatto l’esame con una 126 bianca e in riserva (si chiamava UGO, la 126) ed era il 1984, l’anno del nevone. Ho avuto più paura di rimanere senza benzina nel mezzo dell’esame che della neve (che in ogni modo è entrata, quell’anno, nella storia della protezione civile di Milano e per sempre nei miei incubi).

Ora ho la patente e non amo guidare (superare è rimasta per me una procedura piuttosto impegnativa, odio la Tangenziale, benedico la marcia automatica, non riconosco la mia automobile se non dal colore) ma faccio 40.000 km all’anno per andare a lavorare. E non potrei scrivere questo blog (cioè avere accumulato l’esperienza per scriverlo) se non avessi preso la patente (Dolce&Gabbana tra Milano a Legnano, Armani tra Como e Milano, Chantelle in via dei Missaglia, Tacchini a Novara).

Un’altra cosa di cui ho sempre avuto timore è passare pranzi e cene al ristorante da sola o con persone che non sono miei amici (per me la “cena di lavoro” è peggio della ceretta). Ma dopo aver mangiato camambert e baguette  in albergo da sola per troppe volte, ho deciso che era meglio vincere quel momento atroce in cui il cameriere ti chiede se sei sola (si, vabbé e allora?) e ti fa attraversare tutta la sala per posizionarti nel tavolino in fondo, ma poi mangiare l’anatra all’arancia in compagnia di un buon libro.

Paura di volare (che brutti i primi dieci minuti in cui si tappano le orecchie!), paura del traghetto (io sto seduta sui cassoni dei salvagente anche se vado all’Elba, e ben prima del naufragio Costa Concordia) , paura della moto (e se mi addormento mentre Erri curva?), paura del freddo (quando le dita della mano destra perdono sensibilità), paura della seggiovia (la odio, la odio: e se scivolo priva di sensi mentre è a 300 metri di altezza?), paura di sorpassare (a volte dietro una bisarca posso passare dei quarti d’ora a pianificare il momento buono per mettere la freccia), paura del dolore (no, non lo reggo), paura dei farmaci contro il dolore (e se mi viene uno shock anafilattico?), paura della solitudine (mai in una casa isolata, piuttosto vivere in un sottoscala affollato), paura della folla (durante i concerti a San Siro quando tutti vogliono il bis io voglio uscire e Erri vuole divorziare), paura di nuotare dove non tocco (se mi viene una congestione?), paura di tuffarmi dove tocco (se mi rompo l’osso del collo?)

In questa mia vita sprezzante del pericolo, ringrazio tutti quelli che mi hanno obbligato a fare qualcosa di cui avevo paura. Ringrazio anche l’imbarazzo , peggiore della paura, di ammettere che avevo paura.

Rendo noto per altro che sopravvivo allegramente (piena di amuleti, esorcismi, trucchi, superstizioni, riti magici e paure) e guido tutti i giorni, nuoto tutti i sabati, scio tutti gli inverni, volo tutti i mesi, prendo il traghetto d’estate, vivo in una casa poco isolata e poco affollata, quando ho il mal di testa prendo l’Aulin e al mare nuoto dove non tocco, ma parallelamente alla costa.

Che bello vincere la paura!

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La dispensa è vuota: tutti a tavola!

PB Qualche giorno fa un amico-collega mi ha scritto aggiornandomi sul suo lavoro e chiedendomi del mio. Brevi commenti sulle poche risorse da investire, sui piani di ristrutturazione, sui salti mortali per tenere la barca a galla.

Io gli ho scritto che tignosamente lavoravo per far sopravvivere un mezzo sul quale galleggiare. Giuseppe (è lui l’amico-collega) mi ha fatto un commento sulla grevità della mia espressione e sulla, purtroppo, sua attualità, in momenti in cui non è più tempo per lavorare di fioretto.

Eppure lo scambio di e mail mi suscita una riflessione costruttiva. Che mette in relazione il talento con le risorse limitate.

Oggi ci misuriamo con stage in aziende mediocri, posizioni non ben retribuite, location non sempre ideali (in zona C se abitiamo in campagna, in campagna se abitiamo in zona C), colleghi problematici (se va bene sono depressi, se va male sono sleali o pigri) capi che non ci gratificano.

Dunque non si naviga con il vento in poppa. Ma se si deve andare di bolina, bisogna adattare la nostra tecnica di navigazione. Con il vento in poppa va avanti anche chi fa il morto.

Qui devono subentrare anziché la delusione e la frustrazione (dopo tanto studio, dopo tanto tempo, dopo tante aspettative) il talento e la volontà. Il desiderio e l’ambizione con la tignosa intenzione di avanzare passo dopo passo.
E’ incredibile quanto una sana tensione finanziaria possa aguzzare l’ingegno, far scaturire idee originali, trovare vie inedite alla risoluzione dei problemi.

La cucina italiana produce prove tangibili della suddetta teoria, con piatti straordinari nati dalla povertà dei mezzi e dalla ingegnosità di chi è stato in grado di gestirla e domarla.
Alla mancanza di pane fresco, si può decidere di mangiare pane raffermo (scelta triste per tristi) o di inventare la Ribollita, magnifica zuppa fiorentina che nasce dal recupero di pane vecchio e di verdure cotte avanzate dai pasti della settimana e “ribollite” il venerdì.
Lo stesso vale per i Mondeghili (polpette milanesi che i milanesi non chiamano polpette) fatti con gli avanzi di pane, carne, salame, legati con l’uovo e fritti nel burro. Mortali per il dietologo, divini per il goloso.

Quando le risorse sono limitate, la resistenza alla fatica, l’ostinato attaccamento alle proprie posizioni , l’intelligenza e la fantasia (non siamo con il vento in poppa, siamo di bolina!) sono forse l’unico modo per ottenere un buon risultato. O perlomeno per non retrocedere. Che è un buon risultato se si ha il vento contro. In attesa che viri la barca o che giri il vento.

Non è momento di spreco . Quello che abbiamo dobbiamo trattarlo con grande cura. Conservarlo, rigenerarlo, renderlo utile e proficuo.

Pensate alla scena di Via col vento, quando Rossella O’Hara si confeziona un sontuoso abito di velluto con le tende verdi della madre.

O alla bigiotteria americana nata dopo la Depressione del ’29, quando di materiali preziosi non c’era traccia, che ha ornato tutte le dive di Hollywood e diverse first lady, creando, senza regine e corone nel suo pedigree, collezioni false e preziose oggi conservate nei musei europei.

Il vostro lavoro (provvisorio, malpagato, un po’ scomodo) dovete trasformarlo nella vostra risorsa. I vostri colleghi nei vostri alleati. Il vostro capo nel vostro mentore.
Non c’è posto per lo scoraggiamento, né per buttare via quello che si ha. Che impastato con il vostro talento si trasformerà nel trampolino di lancio per un posto migliore.
Pronti alla vira?

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