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Carriera: come gestire alti e bassi senza buttarsi giù

Al Poldi Pezzoli (la mia casa museo preferita a Milano) al lunedì in pausa pranzo si parla di arte.

Questa settimana era la volta di Botticelli.

Al di là dei dettagli sui dipinti (il Botticelli lo abbiamo studiato al liceo, visto a Firenze, masticato in vacanza, ripassato con i nostri figli per l’interrogazione di storia dell’arte) mi ha molto incuriosita la storia della sua committenza: papi e corte Medicea nel suo periodo di gloria (tempi in cui ha dipinto la Primavera o la Venere tanto per capirci) con lapislazzuli e foglia d’oro on top al suo cachet.

Poi sono arrivati i giovani: Raffaello, Michelangelo, Leonardo.

Il Botticelli mi è passato di moda, ha vissuto un periodo di cupezza, il lapislazzulo non se lo poteva più permettere. I suoi committenti sono diventati ricchi artigiani come il miniatore Donato Cioni, altro che Lorenzo il Magnifico.

Come passare da Gucci al private label di Coin.

Via macchina aziendale e stock option. Down sizing dal golf club alla piscina comunale. Dal ristorante gourmet al ticket restaurant.

Botticelli è passato dalla pagana eleganza della Venere che sorge dalle acque alla fase piagnona del Savonarola.

Cupo deve esserlo stato davvero (non solo nei colori dei dipinti). Con il frate che gli ricordava la morte ad ogni piè sospinto e le nuove generazioni di pittori a prendere gli applausi.

Poi però (ci è voluto qualche secolo) sono arrivati i preraffaelliti nell’800 a farne una icona di stile. E poi anche Andy Warhol,

Lady Gaga e La Chapelle a fare di lui un mito contemporaneo.

Ergo, in ogni carriera ci sono momenti di gloria e trionfo. Che possono essere seguiti da periodi più cupi e grigi (mica si può essere sempre nell’air du temp). Ma poi le mode tornano e il valore, come l’araba fenice, risorge dalle sue ceneri.

Se è successo a Botticelli e a Gianni Morandi, a Steve Jobs e agli anni ’80 non è il caso di scoraggiarsi.

Talento e pazienza pagano. Per fare carriera ci vogliono tutti e due.

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Come sopravvivere con il fai da te quando le aziende latitano e il portafoglio è vuoto.

PB Sono andata, una decina di giorni fa, a vedere la mostra di Rodin a Palazzo Reale.

Ho visitato la mostra accompagnata da una guida. Rodin lo conoscevo già bene (lo ho molto amato a Parigi, come si amano le cose che si scoprono e affascinano durante la giovinezza) ma avere un critico dell’arte ( massimo.dantico@libero.it) che ti racconta delle figure che sgorgano dalla materia, della evoluzione dell’arte dello scultore dai lavori giovanili a quelli della maturità, è stato bellissimo.

Al di là del godimento (che bella l’arte! Che bella Milano quando attraversi la Piazza del Duomo con il buio e la madonnina è illuminata! Che buono il caffè al Camparino mentre si chiacchiera di tutto e di niente!) ne sono uscita che ne sapevo più di prima.

Il mio Rodin svelato mi ha dato il via per scrivere questo intervento sulla mancanza di capacità – e volontà – delle aziende italiane di formare i propri collaboratori.

La cultura corrente delle aziende italiane considera il tempo dedicato all’aggiornamento con sospetto, quasi si trattasse di gite clandestine. Il collega assente per formazione è accompagnato da sorrisetti come se fosse a Camogli a mangiare la focaccia.

A questo clima contribuiscono anche scelte discutibili e clientelari quando le aziende si affidano a docenti modestamente preparati che proiettano usurate slides su Power Point o a istrioni che replicano lo stesso show  indipendentemente dagli interlocutori, regolarmente impreparati perché credono di essere brillanti abbastanza per affascinare l’aula e tirare incolumi fino al coffee break.

Le aziende straniere (per mia esperienza personale posso citare quelle francesi e quelle svizzere, ma ho amiche che lavorano per americani e tedeschi e possono confermare) affrontano la formazione con più professionalità e metodo.

Siccome però dobbiamo accontentarci dei nostri indolenti e mediterranei capi (prendiamoci però l’impegno di diventare professionali quando sarà il nostro turno di essere capi)  e non accontentarci mai del nostro sapere, non trascuriamo le opportunità auto formative che offre, per lo meno nel campo dell’arte, il nostro paese.

In Italia, dopo le scuole superiori, i docenti smettono di sentirsi guide (si vede che reagiscono con acrimonia al sospetto di essere chiocce e si trasformano in Erinni) e lasciano orde di talenti a vagare senza Virgilio per i gironi più o meno infernali, dell’apprendimento.

Dobbiamo usare tutte le nostre energie per non perderci (o perlomeno non troppo) e approfittare, da autodidatti, delle incredibili risorse culturali del nostro paese.

Frequentate le accademie, le pinacoteche, le biblioteche della vostra città: lì normalmente troverete opere inestimabili, illuminate con luci inadeguate, con orari ridotti di apertura, curate da impiegati mal pagati ma spesso colti e appassionati. Normalmente dietro al neon e a una impalcatura occhieggiano Raffaello, Mantegna, Caravaggio.

Persino a Milano, che non è Roma o Firenze, per le mostre che hanno l’onore di essere pubblicizzate (bellissime per altro) c’è una coda spaventosa (e che spesso vale la pena di fare), ma a Brera o al Poldi Pezzoli ci sono capolavori da togliere il fiato che si possono ammirare in beata intimità.

PS La visita guidata a Rodin mi è costata 6 euro, oltre al costo di ingresso alla mostra. A volte una buona guida è dietro l’angolo. E il costo per godersi e capire un capolavoro inferiore a quello di un aperitivo.

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