
tennis (Photo credit: Marc Di Luzio)
PB L’altro giorno ho sentito al telefono la mia amica Susi. Compagna di Università, di quelle con cui ti scambi gli appunti e con cui prepari gli esami.
Commentando le nostre interviste “a chi ce l’ha fatta”, mi suggeriva (un po’ delusa e preoccupata per il suo lavoro) di farne qualcuna “a chi non ce l’ha fatta”.
Lo ho trovato uno spunto geniale. Perché può essere utile per non replicare sbagli altrui, ma soprattutto perché è spiritoso e nell’autoironia spesso sonnecchia il germe del riscatto.
Ci servono dei fallimenti da commentare, anche per scoprire che molto spesso quelle che riteniamo ciambelle senza buco possono essere riciclate in “réussite” (mio papà mi diceva la scorsa domenica come durante uno dei suoi primi colloqui – i dinosauri erano già estinti– un capo francese gli avesse chiesto che cosa fosse secondo lui la “réussite”).
Certo una brillante carriera in una multinazionale, l’oro olimpico, vincere lo scudetto possono essere abbastanza tranquillamente chiamati successo.
Ma se nel concetto di réussite ci mettiamo anche un bel po’ di felicità (sono una inguaribile romantica e credo che fare un lavoro che piace aiuti la produzione di endorfine) forse i giochi non paiono così scontati.
Al Rolex Master di Montecarlo, lo scorso 20 aprile, ho incontrato (non lo vedevo dalla maturità) Fabrizio, un mio compagno di classe del liceo. Ai tempi lui marinava allegramente la scuola per andare a giocare a tennis e so che, anche in seguito, non ha dedicato molte energie allo studio e alla carriera in senso classico (da me sicuramente copiava i compiti in classe), nonostante avesse da ereditare l’attività notarile di famiglia. Ha coniugato la sua passione per lo sport (ancora oggi gioca a tennis), la sua attitudine ludica (una chiacchierata con lui varrebbe il pagamento del biglietto) e il suo spirito imprenditoriale e è diventato il proprietario di alcuni dei più importanti negozi di tennis a Milano. Intorno a lui ha radunato una squadra di non primi della classe a vario titolo (sembra di essere in un film di Ozpetek) con il risultato che il suo negozio (in via Sanzio se volete andare a fare un giro), oltre a fare business, ha l’atmosfera scanzonata di un bar sport e lo spazio emotivo per accogliere consumatori, sfaccendati, sportivi e animali metropolitani di variabile estrazione. Insomma uno di quei posti che sei contento che esistano in città.
Ma oltre a Fabrizio, mi vengono in mente altri, solo leggermente più noti, esempi di fallimento di successo: Pistorius (che corre su lame di acciaio), Steve Jobs (licenziato dalla sua stessa azienda), Leopardi (che parla d’amore da lasciarti senza fiato nonostante la poca avvenenza).
Credo che la réussite, dal punto di vista professionale, sia avere l’occasione di esprimere il proprio talento, fallendo gli obiettivi degli altri e centrando i propri, imperfetti e diversi. E per voi cosa è la réussite?