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Lavorare studiando: utile e adesso più facile

PC Il nuovo decreto per il lavoro prevede che i giovani universitari e anche gli iscritti alle scuole tecniche e professionali abbiano la possibilità di passare del tempo in azienda venendo sovvenzionati dallo Stato, se hanno una buona media universitaria e sono al di sotto di una certa soglia di reddito.

How you spend your 20s define your identity-Forbes

How you spend your 20s will define you-Forbes

Questa iniziativa riconosce un valore al fatto di lavorare mentre ancora si studia, valore del quale sono profondamente convinta.

È un tema che ha  recentemente affrontato  Annamaria Testa in un interessante post sul suo blog nuovoeutile.it, ricordando che durante un sondaggio svolto tra gli studenti del suo corso in Iulm era emerso che chi aveva già avuto delle esperienze di lavoro in parallelo allo studio otteneva dei risultati migliori all’università.

Sia Patrizia che io abbiamo lavorato per quasi tutto il periodo universitario, ed entrambe ne abbiamo sicuramente tratto dei vantaggi. Nel mio caso è fin troppo facile dire che mi è stato utile, visto che sono riuscita a entrare a 23 anni in Young & Rubicam, grazie a una borsa di studio che l’Assocom di allora metteva a disposizione dei giovani.

Il fatto stesso di dedicarmi in parallelo alle due attività permetteva di vedere in modo diverso sia le materie che studiavo in università, che i compiti che dovevo svolgere in agenzia, non tanto per le singole nozioni, quanto per l’acquisizione di un approccio mentale più ampio ed elastico.

Ma mi sono state altrettanto utili alcune esperienze totalmente diverse, anche saltuarie, come la vendita di libri durante la fiera campionaria (parenti e amici costretti ad acquistare a prezzi esorbitanti titoli che non avrebbero mai comprato in condizioni normali, pur di garantirmi la soglia minima sotto la quale non sarei stata pagata)e le lezioni di pianoforte a bambini svogliati e senza orecchio musicale. Con la prima ho dimostrato a me stessa che la timidezza poteva essere vinta grazie alla determinazione, con la seconda ho imparato la dote della pazienza (non tanto nel sopportare i bambini poco dotati, quanto nel gestire le aspirazioni delle mamme frustrate).

Credo che il vero vantaggio risieda nell’acquisire una certa dimestichezza a confrontarsi con altre persone dal punto di vista professionale: gli psicologi dell’analisi transazionale  direbbero che si impara a relazionarsi con i propri colleghi e superiori pariteticamente da adulti, non come bambini che temono il giudizio del genitore.

 

In più, come sottolinea un libro appena uscito – The Defining Decade di Meg Jay-  che consiglio ai più giovani (per gli altri il rischio è solo di avere dei rimpianti!) i vent’anni sono l’età in cui si crea il proprio capitale di identità (in questo articolo di Forbes una sintesi).

Quindi il mio consiglio è di approfittare delle nuove opportunità messe a disposizione della legge (speriamo presto) e in generale di cominciare lavorare appena possibile, un appello che rivolgo non solo ai giovani lettori ma anche ai loro genitori, che a volte inspiegabilmente considerano degradanti o dispersivi alcuni “lavoretti” che i ragazzi fanno durante gli anni dell’università. Siete dello stesso parere?

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Annamaria Testa parla di scrittura, rilettura e cucina dei carciofi

PC Qualche anno fa ho avuto il privilegio di veder nascere un libro: Annamaria Testa, della quale ero assistente in Iulm, riuscì infatti a trasformare le bellissime lezioni che svolgeva in aula in capitoli di Farsi capire, edito da Rizzoli. Tra i diversi argomenti trattati, quello forse più utile nella vita lavorativa di tutti i giorni è il semplice – ma non banale – invito a rileggere quanto si scrive. Sicuramente indispensabile se state scrivendo la lettera d’accompagnamento a un curriculum, ma importante anche se state argomentando a un cliente una proposta di comunicazione  o un progetto innovativo al vostro superiore. Perché le frasi involute,  gli errori ortografici o grammaticali, e anche i semplici refusi saranno indice di scarsa attenzione a quello che fate (e se voi per primi siete poco interessati alla vostra lettera di presentazione, perché lo dovrebbe essere chi vi sta selezionando?).

Per questo vi invito a leggere il bellissimo post di Annamaria apparso ieri su http://www.nuovoeutile.it, il suo sito di teorie e pratiche della creatività.

QUESTIONI DI METODO – SCRITTURA, RILETTURA E CUCINA DEI CARCIOFI di Annamaria Testa

Capita spesso che ragazze e ragazzi mi facciano vedere i loro scritti. Perfino a quelli che vogliono fare pubblicità chiedo di mostrarmi almeno un testo lungo: da un titolo pubblicitario, per quanto brillante sia, è impossibile capire se uno maneggia le parole decentemente, e con grazia.
Così, in novantacinque casi su cento, dopo poco mi ritrovo a fare la medesima domanda: santa polenta, ma hai riletto quel che hai scritto?
Le risposte vanno da no, perché andavo di fretta (argh) a sì, certo (ehm).
… e quante volte hanno riletto, ‘ste anime sante? Una volta. Una. Una sola.
Beh, si scrive e poi si rilegge scorrendo le righe e morta lì, no?

Spiego che si rileggono una volta gli sms. Le mail, se sono non brevissime, qualche volta in corso di scrittura e poi alla fine, prima di cliccare send. Ma un testo per il pubblico va riletto mooolte volte. E, a ogni rilettura, qualcosa va aggiustato. Spesso, quando si modifica una frase, anche la punteggiatura va cambiata di conseguenza.
Il testo apparirà tanto più necessario e naturale quanto più sarà stato, con un paziente e invisibile lavoro di affinamento, reso adatto a dire esattamente quel che vuol dire. Né di più né di meno.
Mi guardano con gli occhioni spalancati, ‘sti pivelli.

Allora parte il teatrino. Prendo la penna e, mentre quelli fanno spallucce, comincio a segnare gli errori di ortografia: accenti, apostrofi. E orrendezze anche peggiori.
… poi segno le frasi storte, o perché i tempi verbali non concordano, o perché non concordano verbi e soggetti, collocati alle opposte periferie di periodi caotici. Oppure perché o il verbo o il soggetto è definitivamente missing. Poi segno gli anacoluti, che sembrano disinvolti ma sono solo bruttarelli: per esempio l’orologio, Pippo lo aveva rotto…
Segno le parole ripetute senza intenzione o necessità e a breve distanza (es: fino ad ora Pippo era in ritardo di mezz’ora). Già che ci sono, dove posso tolgo le d eufoniche. Segno i salti ingiustificati dal passato al presente o viceversa e, se sono ripetuti e ammucchiati in poche righe, gli andirivieni tra “noi”, “tu”, forme impersonali.
Segno le frasi di cui il testo può fare a meno senza perdere un milligrammo di senso. Intanto ho guardato la punteggiatura: di solito trovo virgole sparse dove capita, come petali di rosa sul percorso della processione. O come fiati presi a caso da un attore maldestro.
Ah: comincio a segnare anche le parole fuori tono. Per esempio quelle troppo colloquiali in un testo tutto in punta di penna, o viceversa.
E segno le formule goffe o antiquate: ci sono ventenni che usano egli, al fine di, allorquando e altri muffosi avanzi del tempo che fu.Poi vado a vedere se la scrittura ha ritmo. E se ci sono dei cortocircuiti di senso.
Uno degli esempi più divertenti mi è capitato di recente. È l’incipit di un testo di intenzione peraltro non disprezzabile:
Il braccio chiede consiglio alla mente e intanto è sulla porta del cuore ad origliare ogni suo sospiro.
Dico all’autore: e ora, anima santa, visualizza quel che hai scritto.
C’è un braccio (tranciato?) che chiede consiglio alla mente (come fa? Parla? Pensa? È telepatico?) e intanto (sempre lui, il braccio multitasking) è sulla porta del cuore (urca!) ad origliare (il braccio ha orecchie?) ogni suo sospiro (e come fa a sospirare, il cuore? Ha una bocca? E i polmoni, in questo campionario anatomico, che fanno? Battono?).
Spero di avervi dato un’idea di quel che si può trovare se ci si prende la briga di passare un testo al setaccio fine. E sì, certo, le metafore vanno bene, eccome: ma solo se non collassano l’una sull’altra in una poltiglia di incongruenze.

Naturalmente tutto questo lavoro di rilettura parte dal presupposto che il testo racconti qualcosa che val la pena di leggere, se no è meglio risparmiarsi anche la fatica di scrivere e dedicarsi a qualche hobby più divertente.
Ma se uno decide di scrivere, non c’è verso. Deve anche rileggere, se ha un minimo di rispetto per il proprio pensiero. E quandi dico “rileggere” intendo: con attenzione, e più di una volta. Quante volte? Tante: cinque, dieci, anche venti se il testo è lungo o complesso.

In sostanza, lavorare su un testo è come cucinare carciofi. PRIMA si puliscono e si tirano via le foglie dure e guaste. POI si taglia la punta: via tutte le spine. POI si dividono a metà, o in quarti, eliminando anche quelle barbette interne fetenti e traditrici che, se finiscono in bocca, allappano. POI bisogna lavarli bene bene.
Solo se è stata tirata via la roba sbagliata, brutta, inutile ci si può divertire coi profumi e i sapori. E si può mettere in pentola aggiungendo tutto quel che serve.
Mi diceva però l’ortolano che adesso la gente non vuol più rompersi l’anima, perdere tempo e pungersi per pulire i carciofi: molti preferiscono quelli già pronti, sfogliati, privati del gambo, decapitati. Anche se fanno tristezza, rinsecchiti e nerastri come sono.
Ma chi scrive deve rassegnarsi. E pulire bene i suoi carciofi.
http://www.nuovoeutile.it/ita_scrittura_rilettura_carciofi.html

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