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Quando il genio non esclude l’empatia

PC Sono rimasta molto toccata, come tanti italiani, dalla notizia che Oliviero Toscani ha una malattia incurabile e dalla lucidità e il coraggio con i quali comunica la notizia nell’intervista apparsa qualche giorno fa sul Corriere della Sera. Mi ha poi fatto riflettere – ma non sorpreso – la sua reazione sinceramente stupita all’ondata di affetto che lo ha circondato dopo l’uscita della notizia, che conferma la sua grande e sincera componente umana.

Io sulla sinistra, due colleghi di Y&R in centro e Oliviero Toscani che fa una faccia buffa a destra. Poi, certo, il canguro…

Ho avuto la fortuna di conoscerlo e lavorare con lui per uno scatto fotografico commerciale per la Canguro (scarpe tipo Superga), una campagna che non ha certo lasciato il segno nelle coscienze della collettività e per la quale era probabilmente sprecato. Ma anche in quel caso mi ha colpito la sua capacità empatica di entrare in contatto con le persone più diverse per riuscire a realizzare la foto di cui aveva bisogno. Toscani era già così famoso (per quello lo avevamo scelto) che per qualsiasi modello era un onore solo il poter dire di aver lavorato per lui: ogni sua indicazione era un ordine che veniva immediatamente eseguito. Nel casting, però, c’era anche una bambina di cinque anni, alla quale doveva chiedere di salire nuda su un canguro a misura reale, ricoperto di un pelo apparentemente ispido che ricordava il più possibile l’originale (erano altri tempi, ma non ricordo fosse stato scuoiato un vero canguro per farlo…). La bimba piangeva e si rifiutava di farsi issare sul canguro. Toscani le parlo da solo, la fece ridere, le permise di salire prima insieme ad un altro modello e alla fine riuscì ad ottenere una bellissima immagine di una bambina felice e spensierata.

Per questo, anche se lui afferma nell’intervista che vorrà essere ricordato per il suo impegno, io nel mio piccolo lo ricorderò per la leggerezza e l’empatia che solo le grandi donne e i grandi uomini sono capaci di utilizzare quando è necessario.

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Comunicazione interna. Quando il caffè alla macchinetta non è sufficiente

PB Per aziende con meno di cinquecento dipendenti e unica sede, non esistono programmi, procedure, master che superino l’efficacia del caffè alla macchinetta per sapere come si sta muovendo la compagnia.

Quando in buvette si tirano fuori le tazzine di porcellana, è chiaro che in sala riunioni sta iniziando un meeting importante.

Se il tuo collega è vestito come alla prima comunione e esce alle 16 per andare dal dentista, presto avrete bisogno di assumere il suo sostituto.

Se il tuo capo ti offre il caffè, il budget è andato bene. Se si incazza perchè bevi il caffé, il budget è andato male.

Si vedono al piano ragazze bellissime con la chiavetta ospiti: c’è in ballo il casting per lo shooting.

Il product manager gira con il trolley e chiede ai colleghi come impostare l’out of office: l’embargo trasferte è finito.

Ma se i dipendenti superano le mille unità? Se le sedi di lavoro sono più di quattro? Se il covid ha dato spazio allo smart working? La gestione della comunicazione interna deve cadere sul nostro tavolo come una priorità.

A lezione in Università (io e la Simo insegniamo Teoria e tecniche della promozione dell’immagine in Cattolica) insistiamo molto sulla comunicazione integrata e sulla importanza di considerare fornitori e dipendenti come stakeholder di primaria importanza. Sono i nostri ambasciatori più credibili, in grado di moltiplicare i messaggi positivi ma anche quelli negativi della nostra azienda.

Uno degli strumenti più efficaci che mi è capitato di sperimentare è una accurata e puntuale Rassegna Stampa a disposizione di tutti i dipendenti, dalle posizioni apicali dell’headquarter agli apprendisti in sartoria. In Dolce&Gabbana ho visto la migliore della mia carriera, perché non solo dava una visione internazionale di tutte le uscite del marchio, ma forniva quotidianamente link dei più interessanti articoli su moda e competitors. Gli argomenti più importanti diventavano base comune di conoscenza.

Alla mia amica Paola (e coblogger come i lettori di @trampolinodilancio sanno) ho chiesto qualche aneddoto sulla comunicazione interna, di cui si occupa da qualche tempo. Forse l’aver lavorato sia dalla parte dell’agenzia (piccola, agile, snella: comunicazione interna sul taxi correndo dal cliente) che di quella della grande azienda (complessa, a volte complicata, multinazionale, multiculturale) le ha consentito una sguardo molteplice, come quello dei camaleonti . Quando lavorava in Sky attribuiva un valore importante alla customizzazione della caffetteria aziendale in concomitanza con il lancio dei nuovi programmi: ti sembrava di entrare nel BarLume quando i gialli di Malvaldi erano passati dalla carta stampata alla tv, eri circondato dai campioni di calcio in tutta la scenografia all’inizio del campionato. L’effetto era di sviluppare un forte senso di appartenenza e orgoglio soprattutto quando gli ospiti esterni a cui offrivi il caffè (fornitori, consulenti, candidati, giornalisti, ma anche solo tuo figlio che era venuto a portarti le chiavi…) rimanevano ammirati dal gioco di immersione teatrale nell’ultimo prodotto di cui i dipendenti si sentivano in qualche modo artefici.

L’aspetto emotivo, la bellezza che colpisce i sensi, possono fare a volte di più di un piano di incentivazione. I tuoi dipendenti vanno informati e sedotti. Sono, con i tuoi clienti, una parte sostanziale della tua community. Buon caffè.

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