PB Ultimamente, parlando con il responsabile delle risorse umane di una nota azienda di moda italiana, si argomentava di quanto in questo periodo di contrazione dei consumi, le ricerche del personale si siano focalizzate su figure commerciali piuttosto che di marketing.
Le aziende puntano su azioni di tattica per aumentare (o mantenere) i loro ricavi, piuttosto che spendere in fumosi – e costosi – strateghi da collocare all’ultimo piano.
E un po’ non hanno torto se pensiamo che a creare lo stereotipo del fighetto del marketing che se la tira hanno contribuito molti personaggi più o meno inutili che assomigliano agli “stilisti milanesi” parodiati da Elio nella pubblicità del Cynar. Simpatici a volte, ma sempre personaggi di contorno, che fanno colore e contribuiscono all’arredamento della show room quando tutto va bene e i budget paiono infiniti. Ma davvero non è più tempo (quando mai lo è stato?) di un marketing che si esaurisce in un Power Point e nella produzione di gadget originalissimi e carinissimi.
Eppure mi sento di difendere la professione. Quella vera e piena di contenuti. Che è vitale e non deve stare al terzo piano ma in ogni ingranaggio della macchina aziendale.
Se gli imprenditori italiani credono che essere strategici sia un lusso che oggi non possono permettersi sbagliano, e la sorte delle loro aziende è la prova vivente dei loro errori.
Scegliere se puntare sul livello di servizio, sulla facilità di accesso (un negozio Intimissimi in ogni centro storico o commerciale d’Italia) o sull’esclusività, l’aspirazione a fare parte di un mondo ideale (Abercrombie, solo a Milano, solo con la coda), conoscere il valore del proprio marchio o del proprio prodotto, individuare quello che vuole un consumatore (un uomo può volere un parcheggio comodo fuori dal Brico, una ragazza una gamma infinita di smalti turchesi in piccolo formato da Kiko), intuire una opportunità e saperla cogliere, avere il naso per capirla quando non ci sono i dati e i tempi per saperla, non è un valore accessorio, non sono solo cavoli del brand manager. Sono quello che fa vivere e pulsare un’azienda.
Quindi se il marketing è solo di facciata e ignora il mercato, i fatturati, le idee e la intelligenza, non ha ragione di essere, non più di un centrino di pizzo in fondo alla madia. Ma se è quello vero, se si occupa dei prezzi sapendo che sta costruendo un posizionamento di brand (ma non ignora le esigenze di cassa), se si occupa di stile (ma sa che non tutti hanno 20 anni e pesano 48 kg) , se stampa un catalogo (ma non desidera abbattere una foresta per realizzarlo), allora è quel lavoro per cui vale la pena avere studiato, letto , viaggiato, chiacchierato, capito.
Quando questo tipo di markettaro incontra uno delle vendite, uno di quei draghi “che saprebbero vendere un frigo al polo nord” con il nodo grosso alla cravatta, allora dentro il suo cuore un po’ se la tira. Per me fa bene.