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Quando il perfezionismo ci rende imperfetti

PB Da qualche tempo volevo scrivere dei pericoli del perfezionismo.

Un paio di letture di Dicembre e diverse esperienze vissute mi confermano dell’urgenza: devo mettervi in guardia, sul lavoro e nella vita, dal pericoloso “perfezionismo”.

Sto leggendo OPEN, l’autobiografia (scritta a quattro mani con un premio Pulitzer e si vede) di André Agassi, stravagante tennista, campione fuori dai canoni, tamarro come un calciatore, malinconico come un poeta, capace di vittorie e sconfitte come un cavaliere romantico.

Lui ha iniziato a vincere quando il suo coach gli ha imposto di smettere con la ricerca del colpo perfetto. Non doveva desiderare di essere perfetto, solo desiderare di vincere. E’ stato il consiglio che lo ha portato a divenire il n° 1 nel mondo.

Ho letto – e condiviso –  poi sul Corriere della Sera di sabato 7 Dicembre  che il perfezionismo sarebbe nemico della felicità (del perfezionista medesimo e soprattutto di chi lo frequenta):

–           procrastina i progetti perché non sono mai perfetti

–           frustra i propri collaboratori , esigente fino alla noia non solo con se stesso

–           perde il senso dell’insieme, naufragando in un mare di dettagli trascurabili

Fra le eccezioni di perfezionisti di grande successo il Corriere cita, tra gli altri, Giorgio Armani. Come a dire che esistono casi in cui il perfezionismo è fonte di successo. E qui dissento: ho lavorato con Re Giorgio e posso dire che il suo talento è tale che ha fatto da antidoto al suo perfezionismo. Lui è grande nonostante il suo perfezionismo.

Quindi, dato che non tutti sono dotati di talento da buttare via, vi esorto a non perdere mai il senso dell’insieme, la capacità di sintesi, la visione di un progetto.

Non procrastinate decisioni importanti solo perché non tutto è perfetto.

Ecco qualche esempio pratico in cui l’infelicità passa dal desiderio della perfezione:

– Quelli che passano quattro mesi , da marzo a giugno, a fare preventivi e itinerari per la vacanza perfetta (un paradiso a due lire). E alla fine stanno a casa.

– Quelli che al ristorante, no perché è troppo rumoroso, no perché le luci sono troppo basse, no perché c’è odore di fritto, no perché i camerieri sono villani, no perché anche se prenoti non ti danno il tavolo migliore. E alla fine stanno a casa.

– Quelli che servono le foto dello shooting per la riunione di vendita, ma siccome non sono tutte fotoshoppate, e perché i tagli non sono finalizzati, le tengono segrete fino alla fine della campagna vendite. Quando sono bellissime ma non servono più a vendere.

– Quelli che non dicono la loro perché sanno male l’inglese. E alla fine soffrono perché avevano una idea bellissima che non sarà realizzata.

Una sola cosa, sul lavoro e nella vita, è peggiore del perfezionismo: la sciatteria. Non correggere le slides prima di andare in presentazione (ho assistito recentemente a una riunione in cui, nell’agenda proiettata , marketing era scritto marketting con due t: hargh!!!) , non essere in ordine per un meeting importante (ricordo un meeting in Omega in cui un relatore indossava un Rolex…) , sono atteggiamenti imperdonabili. Avete visto la regia di Traviata per la prima della Scala? Con i gesti che non corrispondevano alle parole e ai sentimenti? E i costumi di Violetta? Che una donna innamorata non indosserebbe neanche per fare un trasloco? Ecco lì un po’ di perfezionismo e meno sciatteria avrebbero dato una mano.

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Da grande voglio fare il raccattapalle

PB La scorsa settimana io e Cristina, una mia collega, siamo andate a Wimbledon.

Arrivarci dall’aeroporto di Luton (che è un aeroporto di Londra solo per le compagnie low cost, perché in realtà è su Marte) è un calvario , ma poi per rientrare in città c’è il metro e è tutto più semplice e gradevole.

Di Wimbledon non mi sono rimaste particolarmente impresse le partite (non ero lì per la bella finale in cui Murray ha riportato gli onori della vittoria in Gran Bretagna dopo 77 anni) ma il magnifico, superbo contorno.

Proprio in quel tratto di strada che porta ai cancelli di ingresso, gli “Honorary Stuart” aiutano il pubblico che scorre numeroso a trovare il gate, ad attraversare le strade, a informarsi in caso di bisogno. Sono volontari così british che più british non si può, con un accento che neanche i maggiordomi della casa reale, selezionati tra migliaia di candidati, rinnovati di anno in anno (quello che ha aiutato noi era Honorary Stuart da 16 anni).

In quel momento ho pensato: da grande voglio fare l’Honorary Stuart!

Pranzato presso l’Hospitality di una grande agenzia americana di cui eravamo ospiti,dopo aver girovagato tra i campi minori, siamo finalmente andate nel centrale.

La coreografia e le cerimonie gestuali dei raccattapalle, quando entrano in campo, quando porgono la salvietta agli atleti, quando aprono i tubi nuovi e dispongono le palle come se fossero su un tavolo da biliardo. Quando corrono veloci e quasi senti il loro cuore battere, perché essere perfetti è la loro partita (sono ragazzini che hanno fatto selezioni e selezioni per arrivare a inginocchiarsi su quel tappeto verde) , allora in quel momento ho pensato: da piccola voglio fare il ballboy!

Verso il secondo pomeriggio è caduta una goccia di piogga. Mentre le atlete finivano il loro gioco, intorno al campo si sono assemblati una ventina di manutenori. Vestiti di verde e blu, parevano in assetto di guerra. Sul punto della Azarenka hanno invaso il prato. All’unisono hanno preso i teli. Due uomini hanno abbattuto la rete in un batter d’occhio.

Mentre la grande vela si stendeva sull’erba, il tetto del centrale si chiudeva.

A Roma il centrale non si può chiudere. Tanto non piove mai. L’anno scorso alla finale degli Internazionali sembrava di essere nella foresta pluviale. Quando i manutenori hanno coperto il campo (in terra rossa) c’era già un po’ di effetto sabbie mobili. Certo non c’erano “quelli di Wimbledon”.

Io settimana scorsa li ho visti, forti come soldati, armoniosi come ballerini, e ho pensato: da grande voglio fare il manutenore di Wimbledon !

Certo anche il tennis non era male, e le fragole con la panna so sweet, ma che spettacolo vedere i manutenori! Che commozione guardare i ball boys! Che ammirazione ascoltare gli Stuart!

(riflessione per il vostro futuro: meglio essere un superbo muratore che un mediocre architetto)

(ulteriore riflessione: andate a imparare laddove c’è l’eccellenza. Alla Scala per fare la costumista o il cantante d’opera, in Svizzera per fare l’orologiaio, in California per fare il surfista…)

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A proposito di tennis, fallimenti e felicità

tennis

tennis (Photo credit: Marc Di Luzio)

PB  L’altro giorno ho sentito al telefono la mia amica Susi. Compagna di Università, di quelle con cui ti scambi gli appunti e con cui prepari gli esami.

Commentando le nostre interviste “a chi ce l’ha fatta”, mi suggeriva (un po’ delusa e preoccupata per il suo lavoro) di farne qualcuna “a chi non ce l’ha fatta”.

Lo ho trovato uno spunto geniale. Perché può essere utile per non replicare sbagli altrui, ma soprattutto perché è spiritoso e nell’autoironia spesso sonnecchia il germe del riscatto.

Ci servono dei fallimenti da commentare, anche per scoprire che molto spesso quelle che riteniamo ciambelle senza buco possono essere riciclate in “réussite” (mio papà mi diceva la scorsa domenica come durante uno dei suoi primi colloqui – i dinosauri erano già estinti– un capo francese gli avesse chiesto che cosa fosse secondo lui la “réussite”).

Certo una brillante carriera in una multinazionale, l’oro olimpico, vincere lo scudetto possono essere abbastanza tranquillamente chiamati successo.

Ma se nel concetto di réussite ci mettiamo anche un bel po’ di felicità (sono una inguaribile romantica e credo che fare un lavoro che piace aiuti la produzione di endorfine) forse i giochi non paiono così scontati.

Al Rolex Master di Montecarlo, lo scorso 20 aprile, ho incontrato (non lo vedevo dalla maturità) Fabrizio, un mio compagno di classe del liceo. Ai tempi lui marinava allegramente la scuola per andare a giocare a tennis e so che, anche in seguito,  non ha dedicato molte energie allo studio e alla carriera in senso classico (da me sicuramente copiava i compiti in classe), nonostante avesse da ereditare l’attività notarile di famiglia. Ha coniugato la sua passione per lo sport (ancora oggi gioca a tennis), la sua attitudine ludica (una chiacchierata con lui varrebbe il pagamento del biglietto) e il suo spirito imprenditoriale e è diventato il proprietario di alcuni dei più importanti negozi di tennis a Milano.  Intorno a lui ha radunato una squadra di non primi della classe a vario titolo (sembra di essere in un film di Ozpetek) con il risultato che il suo negozio (in via Sanzio se volete andare a fare un giro), oltre a fare business, ha l’atmosfera scanzonata di un bar sport e lo spazio emotivo per accogliere consumatori, sfaccendati, sportivi e animali metropolitani di variabile estrazione. Insomma uno di quei posti che sei contento che esistano in città.

Ma oltre a Fabrizio, mi vengono in mente altri, solo leggermente più noti, esempi di fallimento di successo: Pistorius (che corre su lame di acciaio), Steve Jobs (licenziato dalla sua stessa azienda), Leopardi (che parla d’amore da lasciarti senza fiato nonostante la poca avvenenza).

Credo che la réussite, dal punto di vista professionale, sia avere l’occasione di esprimere il proprio talento, fallendo gli obiettivi degli altri e centrando i propri, imperfetti e diversi. E per voi cosa è la réussite?

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