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COME ESSERE MAMME E DONNE MANAGER: TRE TESTIMONIANZE

PC Abbiamo chiesto ad alcune mamme che ricoprono ruoli di responsabilità nell’ambito del marketing e della comunicazione come sono riuscite a conciliare la maternità con la carriera, contattando anche una mamma che lavora all’estero e aspettandoci il racconto idilliaco di asili aziendali, benefit speciali, massima tolleranza. Abbiamo invece, con una certa sorpresa forse dovuta a un’inconscia tendenza a criticare il nostro paese e mitizzare le condizioni negli altri, raccolto delle esperienze molto più positive da parte delle mamme che lavorano in Italia ed entrambe per aziende italiane! Partiamo con questi esempi positivi, che ci rincuorano sulla possibilità di districarsi tra pannolini e marketing plan!

di stasi

Mariavittoria Di Stasi

Mariavittoria Di Stasi, Vogue Brand Director in Luxottica, è una vecchia conoscenza di trampolinodilancio che nei due anni e mezzo trascorsi dall’intervista che le abbiamo fatto è diventata mamma di Eleonora ed è rientrata al lavoro dopo la pausa maternità. Le abbiamo innanzitutto chiesto come si è organizzata.

Mariavittoria Di Stasi: Ho trovato una tata dolcissima e super empatica con la bimba. Le vuole bene come se fosse sua figlia e io mi sento serena sapendola con lei.

Per il primo anno, ho preferito questa soluzione ma con il compimento del secondo anno di vita ci dovremo settare su un nuovo equilibrio (nido+baby sitter) per alimentare la socialità con altri bambini.

In cosa ti ha aiutato l’essere mamma nel lavoro?

A concentrarmi sulle priorità (vere) imparando a dire qualche volta di no per focalizzare tempo e risorse su ciò che è realmente di valore aggiunto.

In cosa ti ha danneggiato l’essere mamma nel lavoro?

Per il momento mi sentirei di dire che non ho avuto particolari problemi. Ho sicuramente meno tempo per fare networking davanti a un caffè con i colleghi ma anche questa dimensione si sta riequilibrando, con un po’ di organizzazione e disciplina.

Quali pensi siano vantaggi e svantaggi per tua figlia?

Il vantaggio è di avere una mamma soddisfatta ed equilibrata, lo svantaggio è di non avermi con sé quanto vorrebbe!

Un quadro incoraggiante, che viene confermato anche da Simona Bianco, Global Innovation Manager in ILLVA Saronno, alla quale chiediamo innanzitutto di raccontarci qualcosa di se stessa.

bianco

Simona Bianco

Simona Bianco: Ho “29+” anni, sono napoletana di origine, milanese di adozione. Mi occupo con entusiasmo di marketing da più di 10 anni (ora che li conto sono tantissimi!!!) e da quattro lo faccio in ILLVA Saronno, azienda produttrice di alcuni tra i Brand di alcolici più famosi al mondo come Disaronno. I viaggi, il mare e la musica sono la mia passione. Sono mamma di Greta, una mia bimba di quasi 9 mesi, simpaticissima e sempre allegra.

Nella tua carriera da marketing manager come hai affrontato la scelta della maternità?

Io ho sempre amato molto il mio lavoro, per questo sono arrivata a diventare mamma a 36 anni. Al di là del sentirmi pronta come donna, ci sono stati diversi motivi per cui ho rimandato la scelta nel tempo. Temevo in un rallentamento della crescita professionale e di una serie di difficoltà organizzative dettate da un lavoro a tempo pieno e i genitori (futuri nonni) lontani. Ma, come mi dico spesso, il segreto per andare avanti è iniziare, e quindi il momento è arrivato. Non sarebbe stato così in un momento professionale di forte ascesa o passaggio ad un’azienda nuova. La maternità richiede dei cambiamenti che pongono te e l’azienda in cui lavori in condizione di adeguarsi. E per questo ci vuole tempo.

In che senso?

Innanzitutto in termini di organizzazione delle persone. Perché per quanto tu possa lasciare i progetti ben avviati e con fasi di validazione chiare, se vai via per almeno 6 mesi è necessario che qualcuno faccia le tue veci. E non è detto che questa persona sia già in azienda oppure, se c’è, magari è ancora junior.

Come ti sei organizzata al rientro?

Il primo passo è stato capire quando sarebbe stato il momento giusto per rientrare in ufficio. Io ho deciso di aspettare che Greta fosse completamente svezzata per ricominciare a lavorare. Un marito libero professionista e la tata giusta sono i miei asset vincenti per uscire di casa tranquilla e affrontare il lavoro serenamente. Adesso e per i prossimi 3 mesi, inoltre, posso godere di un orario ridotto (6 ore anziché 8+) che spetta alle mamme fino all’anno di età dei figli. Devo ammettere poi che la mia azienda rispetta molto questo limite di orario anche in piccole attenzioni che non sono affatto scontate.

Ad esempio?

Come ad esempio il fatto di non pianificare riunioni alle 15.30! E questo fa molto la differenza perché al di là dell’obbligo di legge (le due ore di permesso sono una concessione di legge) c’è forte rispetto reciproco, apertura e disponibilità.

In cosa ti ha aiutato l’essere mamma nel lavoro?

Al contrario di quanto si possa pensare – e che spesso si fa fatica a capire – il periodo di maternità non è stato affatto una pausa dal lavoro, ma un training continuo su attività quali priority setting, problem solving, multitasking, sviluppo del pensiero parallelo e people management. Non sono forse queste le soft skills più frequenti che vengono richieste da chi ti assume?

In cosa ti ha svantaggiato l’essere mamma nel lavoro?

Per il momento nessuno svantaggio se non quello di non essere ancora completamente libera di fare lunghe trasferte. Per fortuna, l’azienda ha assecondato questa mia esigenza e, nella revisione dell’organizzazione, mi ha affidato un ruolo che non richiede frequenti spostamenti. Diversamente rispetto a prima, utilizzo di più gli strumenti di video call e sono totalmente indipendente nella gestione delle visite ai mercati esteri. Sono certa che questa scelta continui ad essere vista dall’azienda come una conferma dell’impegno e del valore che, come prima, hanno caratterizzato il mio approccio al lavoro e che quindi la carriera possa proseguire con slancio.

Quali pensi siano vantaggi e svantaggi per tua figlia?

Essere una manager soddisfatta ed appassionata mi rende felice. È questo il maggior vantaggio per la mia bimba. Quale figlio la sera vorrebbe trovarsi di fronte una mamma arrabbiata o scontenta? Svantaggi per Greta al momento non ne vedo. D’altra parte io stessa sono figlia di due genitori che hanno sempre lavorato a tempo pieno!

E allora come mai tutta questa reticenza a diventare mamme se si è donne in carriera? È solo uno stereotipo?

Forse quel che manca in Italia, e che favorirebbe molto la conciliazione tra questi due mondi, è una cultura più aperta agli orari flessibili, all’home working, alla diversity nel top management, ai servizi a sostegno della famiglia. Un approccio simile migliorerebbe la qualità della vita di noi mamme manager. Un valore che sono certa saremmo in grado di riversare anche sull’attività lavorativa. Ma sono discorsi molto più ampi, legati ad una cultura italiana ancora troppo lontana dagli standard europei, anche se qualcosa sta cambiando.

Cosa?  

Ci sono aziende che già dedicano un’attenzione particolare alle donne che rientrano dalla maternità, offrendo la possibilità di usufruire di orari flessibili, bonus mirati all’acquisto di servizi per la famiglia (ad esempio estensioni dell’assicurazione sanitaria ai figli) oppure prospettando percorsi di carriera chiari, adeguamenti di stipendio. Insomma, investono sulla base di quanto la persona ha sino ad allora dimostrato di valere e, ovviamente, sul suo potenziale di crescita. D’altronde migliori sono le prospettive al rientro dalla maternità maggiori sono le probabilità che le mamme rientrino prima, felici e motivate. Forse sono ancora pochi casi virtuosi, ma è un buon inizio.

Guardando indietro rifaresti tutto?

Assolutamente sì, anche domani. Ma non ditelo al mio capo!!!

Simona auspica l’aumento in Italia di formule più flessibili  e di una serie di servizi a sostegno della famiglia, ma da quanto ci racconta Elisa Pugliese neppure in Germania, una delle nazioni europee con il maggior tasso di occupazione, la situazione è così rosea come pensavamo, e come probabilmente lei stessa si aspettava, visto che  nell’ultima intervista ci era apparsa convinta di aver fatto la scelta giusta scommettendo su una crescita professionale oltreconfine (vive e lavora a Dusserdorf). La ritroviamo molto più critica sul trattamento che una madre ottiene sul lavoro in Germania.

Elisa Pugliese

Elisa Pugliese

Qual è la tua situazione attuale: cosa fai e quanti anni ha tua figlia?

Elisa Pugliese: Mia figlia ha 31 mesi. Io sono una mamma-single, come il 20% delle famiglie tedesche (1,6 milioni di cui il 96% mamme single e il 4% padri single), e non ricevo gli alimenti dal padre di mia figlia nonostante mi spetterebbero per legge fino al 36° mese di mia figlia. Il tribunale minorile da Aprile 2013 non ha ancora elaborato la nostra pratica – questa è una parentesi sull’efficienza delle istituzioni tedesche.

Fino a fine marzo 2015 lavorerò per una società di analisi di dati seguendo clienti del settore cosmetica e profumeria in Germania.

In realtà io sono un´esperta di market intelligence/market research e brand building internazionale, ma dopo la nascita di mia figlia ho provato a cercare un lavoro più sedentario con meno viaggi di lavoro.

Mi era stato prospettato un part time di 32 ore, e per 32 ore vengo anche pagata, mentre in realtà molte settimane chiudo con 45-55 ore, senza avere gli straordinari pagati bensì molti costi di babysitter! E viaggio più del previsto, dovendo partire alle 6 del mattino e tornando alle 9 di sera, senza che ovviamente ci siano asili disponibili a fare questi orari.

Il prezzo umano lo lascio commentare al lettore…

Come ti sei organizzata?

Ho iniziato a lavorare nel Novembre 2012 che mia figlia aveva 4 mesi con la speranza di reintegrarmi al più presto nel mondo del lavoro. Il posto all´asilo pubblico (costo 350 Euro al mese per 40 ore) però lo abbiamo avuto a Agosto 2014.

Tra Novembre 2012 e Agosto 2013 ho supplito con una Tagesmutter (baby sitter al proprio domicilio) e baby sitter private. Poi da agosto 2013 a Agosto 2014 con un asilo privato che mi costava circa 1300-1600 Euro al mese per 40 ore e quando viaggiavo per lavoro integravo con la baby sitter privata. Spendevo più di quello che guadagnavo ma l´ho fatto sperando ne valesse la pena per avere poi un posto fisso e una posizione sicura.

Quali sono le differenze nel lavorare in Germania per una mamma? Le mamme lavoratrici sono più garantite?

Il mito del Welfare tedesco vale solo per chi ha situazioni standardizzate, ossia “lavoratore statale con famiglia tradizionale”. Il che non corrisponde alla realtà per molti.

Secondo la legge le donne hanno diritto a 12 mesi di maternità pagati al 70% dello stipendio netto medio degli ultimi due anni precedenti la maternità e gli uomini a due mesi di paternità alle medesime condizioni economiche.

Le donne possono prolungare la maternità fino a tre anni mantenendo la garanzia del posto di lavoro, ma senza retribuzione.

In realtà le categorie di lavoro in cui si inserisce la maternità si possono sintetizzare cosi (ciascuna l´ho vissuta nel mio giro di amici o nelle mie esperienze dirette):

  1. Lavoratori statali non licenziabili => hanno maternità regolare, possono rientrare dopo 3 anni con un part-time anche solo di 10 ore e questo gli è dovuto, non sono ricattabili e possono far valere i propri diritti
  2. Lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato => hanno maternità regolare, possono rientrare dopo 3 anni ma sono ricattabili sul part time e vengono discriminati se prendono oltre i 12 mesi di maternità o se gli uomini fanno valere il proprio diritto ai due mesi di paternità. I loro diritti però possono venire difesi legalmente
  3. Lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato => hanno maternità regolare, poi però il loro contratto non viene rinnovato/confermato e restano disoccupati
  4. Lavoratori autonomi => hanno maternità in relazione ai profitti generati nell´anno precedente alla nascita del figlio ma nessuna tutela e cercano di lavorare il prima possibile per non perdere la clientela.

Inoltre legalmente ci sono tre categorie di “famiglie”:

  1. Famiglie tradizionali con figli nati nel matrimonio tra madre e padre
  2. Coppie conviventi con figli nati senza che i genitori fossero sposati
  3. Mamme senza partner

E poi dipende anche una che mamma vuole essere, che autoconsapevolezza e a che modello di madre aspira (anche in questo caso ne conosco molteplici sfaccettature, che semplifico): c´è chi è convito che i bambini abbiano bisogno di figure di riferimento e rituali/abitudini per sviluppare una personalità sana ed emotivamente stabile, e ci sono donne convinte che i bambini in qualche modo si arrangiano/se ne fanno una ragione e che si sentono più appagate a lavorare.

In che cosa ti ha aiutato l´essere mamma nel lavoro?

NULLA. A mio parere avere un figlio è un handicap per il lavoro. Le aziende non hanno considerazione né rispetto né tolleranza per la situazione famigliare dei dipendenti. I dipendenti devono lavorare e produrre, il resto non interessa.

Quali pensi siano vantaggi e svantaggi per tua figlia?

Esiste un detto in Germania “ciascuno ha il proprio pacchetto da portare”. Mia figlia ha il suo e non è poco…  io cerco di farla crescere emotivamente stabile e farle sviluppare una personalità sana. Quando non posso occuparmene personalmente scelgo con cura le persone a cui affidarla e che lei prende come riferimento.

In concreto aver frequentato altri bambini fin dalla tenera età e aver avuto diverse persone di riferimento ed esperienze di gruppo le ha consentito di sviluppare conoscenze e attitudini – nonché il bilinguismo – che io da sola non avrei potuto valorizzare.

Il rovescio della medaglia è che non le ho potuto garantire rituali nella vita quotidiana, ad esempio non dorme ancora da sola perché l´esser strapazzata da un posto all’altro crea disorientamento, ha ancora il pannolino perché non riusciamo a trascorrere 2-3 settimane “normali” di fila per abituarla a stare senza pannolino.

Tre esperienze con diverse sfaccettature. Non ha caso un blog scritto da una mamma lavoratrice (si chiama 50sfumaturedimamma.com) ha raccolto più di cento fenomenologie di mamma (una più divertente dell’altra).

Se credete di avere una ricetta per far lievitare la felicità unendo sapientemente figli e carriera raccontatecela, o scriveteci anche semplicemente qual è la vostra esperienza di mamme lavoratrici.

 

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“MAX WEBER ERA TEDESCO, MACCHIAVELLI ERA ITALIANO: L´ATTITUDINE TEDESCA AL LAVORO” Intervista a Elisa Pugliese Senior Brand Strategist, Dusseldorf

PC Ho conosciuto Elisa quando, per la sua tesi in Iulm, girava la Cina per capire come le grandi multinazionali stessero adattando le loro strategie di comunicazione a un mercato così diverso. Fra i sui primissimi lavori (forse lei neppure lo ricorda) c’è un documento sulla cultura cinese in rapporto ai consumi che le ho commissionato quando facevo new business in Cina. Mi aveva colpito la sua estrema precisione e determinatezza – che l’hanno portata, dopo uno stage nel reparto ricerche di Young & Rubicam, a lavorare con successo nell’ambito della consulenza prima in Added Value e poi in JWTAdvertising, e ricordavo la sua reale disponibilità a viaggiare.

Elisa Pugliese, Brand Strategist Dusseldorf

Elisa Pugliese, Brand Strategist Dusseldorf

Per questo non mi ha stupito scoprire, grazie al contatto mantenuto con Linkedin, che lavora in Germania e che sta per diventare  “Senior Brand Strategist” in un importante centro media a Dusseldorf, del quale non può ancora rilevarci il nome.

Come ci racconta, dopo aver cambiato due città, cinque case, un fidanzato, due datori di lavoro e esser diventata mamma, è sempre convinta di aver fatto la scelta giusta scommettendo su una crescita professionale oltreconfine.

Recentemente ha scatenato un’interessante discussione sull’Erasmus, sul quale ha un punto di vista piuttosto provocatorio (giovani che pensano solo a sbronzarsi e non si integrano minimamente nel tessuto sociale della nazione che li ospita). Le chiedo quindi di spiegarci perché è così negativa sull’argomento e cosa suggerirebbe come alternativa.

Elisa Pugliese: Alcune premesse utili per contestualizzare le mie opinioni su studio e lavoro.

1)      vivo in Germania dal 2007, dove son stata trasferita dalla multinazionale per cui lavoravo a Milano. In precedenza ho vissuto alcuni anni in Asia e ho girato il mondo in modo decisamente autentico per necessità familiari, di studio o umanitarie;

2)      considero la possibilità di studiare un privilegio assai prezioso e non un obbligo o un´ovvietà;

3)      alla fine di un corso di specializzazione post laurea in Social Management nel 2010 ho trascorso 2 mesi occupandomi del livellamento

dei titoli di studio europei nell´ambito della riforma Bologna dell´istruzione superiore (il cosidetto “3+2”)

Ho recentemente letto che come speranza di soluzione alla crisi giovanile il budget allocato al Progetto Erasmus verrà esteso a 14,5 miliardi di Euro nei prossimi cinque anni (fonte Unione Europea, European Youth – ilfattoquoditiano.it) per consentire a più giovani di trascorrere soggiorni formativi nei vari campus universitari.

I giovani partecipanti al progetto Erasmus che ho conosciuto io negli ultimi anni non mi sembravano affatto propensi a valorizzare le valenze formative di tale progetto bensì a vivere mesi di letterale sballo e promiscuità. Non ricordo nessuno dei miei conoscenti in Erasmus che fosse interessato a capire la cultura locale, a visitare i luoghi significativi, a immergersi nella quotidianità della popolazione. E ovunque la lingua comune era l´inglese, che il programma fosse svolto in Svezia, Germania o altrove. Gli scopi didattici erano considerati secondari rispetto al divertimento.

Secondo me ampliare il numero dei giovani destinatari dei fondi Erasmus non è la soluzione per offrire un percorso formativo di qualità e le risulta

nti opportunità di soluzione della crisi giovanile. Io propenderei per concentrare le risorse sugli studenti più meritevoli e motivati, che abbiano un progetto concreto in cui impegnarsi e di cui render conto al termine del soggiorno (es. un approfondimento tematico, una ricerca scientifica a seconda delle materie), con un docente o un tutor di riferimento in loco e una commissione nell´università di partenza che accerti la validità del percorso formativo.

Il mio trasferimento in Germania nel Novembre del 2007 è nato come esigenza aziendale di knowledge sharing in seguito alla fusione di alcune sedi europee di una multinazionale delle ricerche di mercato e della consulenza. Inizialmente ho mantenuto il contratto di lavoro italiano e ho avuto una trasferta di un anno, poi prolungata a due.

Alla fine del 2009 io sarei tornata in Italia, se la crisi finanziaria e manageriale non avesse compromesso la possibilità di reintegrarmi nella sede milanese. Altisonanti parole come “knowledge sharing”, “talent retention” e “team building” lasciavano il vuoto tra le scrivanie e gli uffici spopolati di mese in mese dai licenziamenti più o meno volontari dei colleghi.

Di fronte allo scenario di un´imminente disoccupazione, ho preferito scommettere sul mio futuro in Germania.

Attualmente – dopo aver cambiato due città, cinque case, un fidanzato, due datori di lavoro e esser diventata mamma – sono davvero convinta di aver fatto la scelta giusta quel freddo e buio dicembre del 2009.

Quali sono i vantaggi di lavorare all’estero rispetto all’Italia?

Il primo vantaggio percepibile del lavorare in Germania – a qualsiasi livello di carriera, sia come capi che come sottoposti – è  l´ottemperanza dei diritti e dei doveri del lavoratore.

Le manifestazioni di questo principio si riscontrano nei comportamenti quotidiani: puntualità e affidabilità nello svolgimento dei compiti, chiarezza nelle aspettative e nel conseguente feedback delle performance da parte dei capi, nella pianificazione della formazione interna (giorni di formazione stabiliti per contratto), nella trasparenza delle note spese, nell´inalienabilità del diritto alle ferie, nella prevedibilità degli orari di lavoro (rarissimamente oltre le 17,30), nella puntualità dei pagamenti ai fornitori (15 giorni), nell´onestà nell´utilizzo delle risorse aziendali (es. non si fanno telefonate private dal telefono aziendale, non si portano a casa penne e gadget, non si caricano file personali sul pc aziendale); non è ovvio che i sottoposti siano incondizionatamente a disposizione del capo e che quest´ultimo si permetta di urlare e inveire contro di loro, come ero solita sentire imbarazzata negli uffici milanesi.

Per me tale attitudine al lavoro ha rappresentato un shock e all´arrivo l´azienda tedesca mi ha fatto frequentare un corso sulla gestione del personale nella realtà locale: ero talmente abituata a essere alla mercé dei miei capi e a rinunciare alla mia vita privata per assecondare i clienti, che ero come paralizzata nell´esprimere le mie esigenze e nel gestire un team di junior così cosciente dei propri diritti da sembrarmi sfrontatamente arrogante.

A livello burocratico il sistema è complesso e applica il motto “tolleranza zero”: nessun lavoro è in nero, ovviamente il lavoro viene retribuito fin da subito (niente stage gratuiti), tutto è registrato, certificato, codificato e archiviato, le leggi non si interpretano bensì si applicano senza eccezioni (nemmeno le eccezioni dettate dal buon senso, purtroppo), la formazione permanente è una realtà promossa sia dalle aziende che dalle istituzioni (camere di commercio, università per adulti, ecc.).

L´equilibrio tra dare-e-avere è garantito a chi si districa nella miriade di moduli, uffici, timbri.

In sintesi: Max Weber era tedesco, Macchiavelli era italiano… e questo si riscontra tuttora 😉

E ora le domande classiche che trampolinodilancio rivolge ai giovani che ce l’hanno fatta. Perché pensi di essere stato scelta al tuo primo colloquio, cosa ha fatto la differenza?

Sinceramente non ricordo il primo colloquio – ne ho fatti troppi per ricordare esattamente il primo.

Credo comunque che a fare la differenza nel caso dei miei primi colloqui di lavoro andati a buon fine siano state:

–      l´intraprendenza, cioè l´aver dimostrato di prendere l´iniziativa nel concretizzare le mie ambizioni, la capacità concreta di ingegnarmi e districarmi in realtà complesse e sconosciute;

–      la capacità di apprendimento in modo fluido e non strutturato, capacità apprezzata in Italia e molto meno in Germania, dove il sapere acquisito ma non certificato è considerato con scetticismo;

–      la disponibilità a dar priorità al lavoro a discapito della mia vita privata e delle mie esigenze personali;

–      l´eccellenza dei risultati ottenuti in ambito scolastico e accademico, nonché la padronanza di quattro lingue e altrettante culture.

Cosa ti è servito di più nel primo anno di lavoro?

La versatilità delle conoscenze (economia, statistica, semiotica, sociologia, organizzazione acquisite alla IULM) mi ha consentito di partecipare alla vita aziendale in più ambiti e di confrontarmi con esperti in varie tematiche.

Grazie a questo eclettismo ho acquisito una dimestichezza interdisciplinare ben rivendibile nel settore della consulenza strategica.

Cosa ti ha insegnato il tuo primo capo?

La mia prima capa in Y&R mi ha impresso come refrain nel cervello:

–      “Al mondo c´è posto per tutti”, che è una frase a cui stentavo a credere in certi momenti di buia incertezza;

–      “Controlla i dati!” procedura noiosa che io tendevo a sottovalutare, dando per scontato che l´elaborazione automatica dei dati avvenisse senza errori;

–      “Fai una cosa alla volta” mentre io in parallelo ascoltavo il suo briefing, controllavo la mail e magari prendevo appunti guardando un reel.

La mia prima capa era l´”anima buona” dell´agenzia, una pseudo-mamma per gli stagisti di turno, e ora si gode la benemerita pensione.

Cosa ti ha insegnato il capo che consideri tuo mentore?

Il capo che considero il mio mentore è Luca Vercelloni, un uomo di un´intelligenza, una versatilità e una capacità di astrazione straordinarie, che mai più ho ritrovato né in Italia né all´estero. Un genio capace di intercettare dinamiche e strutture allo stato nascente, e di esprimerle con un linguaggio acuto, preciso e poetico: mi ha insegnato tutto questo, o almeno mi ha dato questa impronta (non ho la presunzione di esser altrettanto brava ed esperta).

Oltre alla superiorità nei metodi di ricerca e nei contenuti strategici, questa persona aveva instaurato con me un rapporto schietto di confidenza, molto trasparente nel bene (avevo accesso a informazioni riservate) e nel male (parlavamo di lavoro anche di notte, nel weekend e in ferie).

Mi ha anche insegnato l´integerrima correttezza verso i clienti e l´onestà intellettuale, doti decisamente rare.

Mi aveva messo in guardia verso le dinamiche italiche di crescita professionale. Pur apprezzando moltissimo il mio lavoro e presentandolo ai clienti, mi avvertiva metaforicamente “Fino a che non si ha la pancia e i capelli bianchi, non si sembra autorevoli”: sui capelli bianchi potevo soprassedere, sulla pancia assolutamente no… Sono troppo sportiva ed esteta per accettare i rotolini, io sulla pancia ho la tartaruga! (Anche Luca mi conferma di avere a tutt´oggi la pancia piatta – ndr)

Negli anni trascorsi con Luca ho imparato a conoscere i miei limiti di sopportazione, purtroppo a spese della mia salute e della mia vita privata: mentre lui dorme pochissimo, io ho risentito di questi ritmi stravaganti di lavoro e dopo quasi sette anni avevo compromesso il mio equilibrio fisico ed emotivo. Ho imparato molto da lui e ne ho una stima professionale altissima, purtroppo lo stile di vita che mi offriva non sarebbe stato sostenibile come scelta di vita.

Cosa vorresti aver studiato in più o di più nel tuo percorso scolastico?

Avrei voluto studiare di meno… studiavo molto più del necessario, collezionavo esami a ritmi serrati, con una passione per il dettaglio e l´approfondimento che mi riempiva di gioia e soddisfazione.

Per anni non mi sono concessa una settimana bianca né weekend veri e propri, le cosiddette feste studentesche della night life milanese non erano nella mia agenda. Finivo gli esami a luglio e non ne avevo più da dare nella sessione di settembre. Quindi dedicavo l´estate a stage o a esperienze formative e viaggi all´estero.

Mi sono accorta troppo tardi che servono altre doti rispetto alle conoscenze per districarsi nella professione, specialmente in Italia. Bisogna esser simpatici, dedicare tempo a curare le relazioni giuste, plasmare i propri gusti pur di assecondare alcuni interlocutori decisivi. Diciamo che io ero troppo teorica e disciplinata per sfondare, ho dovuto sviluppare a posteriori certe soft skills (e non sono ancora bravissima a risultare simpatica a tutti).

Inoltre, mi trasferirei in Germania già durante l´università perché qui è in molte regioni gratuita (e in alcune si pagano solo 200-500 Euro all´anno): pur avendo beneficiato in IULM di alcune borse di studio, i costi complessivi della vita studentesca in Germania sono limitati, sia per gli alloggi che per il materiale didattico e i trasporti (gratuiti). Vabbeh… col senno di poi siamo tutti più saggi: spero che almeno mia figlia, di nazionalità italo – tedesca, apprezzi il DNA interculturale che il destino le ha offerto.

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